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Tifo, passione, cuore e follia. Fenomenologia di un amore chiamato calcio

C'è chi sceglie di finire i propri giorni con la propria squadra, chi di continuare ad andare allo stadio da morto. Altri hanno acceso 10mila ceri per la nazionale. È il tifo, bellezza, quello vero

Tifo, passione, cuore e follia. Fenomenologia di un amore chiamato calcio

"Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Posso assicurarvi che è molto di più”. Probabilmente quella dello storico giocatore e allenatore scozzese Bill Shankly è la definizione che più si avvicina all'esaustività. La perfezione però non esiste. Perché il pallone, e soprattutto la passione che muove i suoi tifosi, contempla dinamiche ben lontane dall'essere definitivamente esplorate. “Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, chiosava Pier Paolo Pasolini. Ecco, si badi bene, è proprio la parte sacra che qui si vuol prendere in considerazione, ché di eventi profani e delittuosi le cronache calcistiche ne sono fin troppo piene. Sono la faccia più inflazionata e chiacchierata del pallone, quella più sporca e più insana. La parte vera, quella pura e nobile, è intramontabile.

Si può chiamare in mille modi: tifo, passione, fede, amore. È quella che scorgi negli occhi chiusi di un tifoso cieco, seduto sugli spalti dello stadio della sua squadra del cuore – il Bohemians 1905 in Repubblica Ceca – con sciarpa al collo, bastone in mano e cane fedele al suo fianco. Non se ne perde una di partita. Non può osservare le magie dei suoi beniamini, ma può “sentirle”. "Non si vede bene che col cuore”: ha spiegato così il suo segreto, citando il Piccolo Principe. Perché nel calcio l'essenziale è invisibile agli occhi.

Strano a dirsi in un'epoca in cui l'immagine e la spettacolarizzazione la fanno da padrone. Ma sono le emozioni quelle che contano. E quelle che restano. Nonostante tutto. Anche nonostante la morte. Marck Rooie era un tifoso della squadra olandese del Feyenoord. Su un'algida barella, osservava la sua squadra correre sul prato verde al primo allenamento della stagione. Poi dalla curva dello stadio De Kuip vide srotolarsi un lenzuolo con la sua immagine disegnata. I tifosi lo acclamavano come si fa con i campioni, quelli veri. Rooie li abbracciò virtualmente, trovò la forza di lasciare quella grigia barella e andò sotto la curva. L'ultimo coro scandito insieme ai suoi compagni di avventure, di vittorie e delusioni, il pugno chiuso che batte sul petto, all'altezza del cuore. Quel cuore che smetterà di battere tre giorni dopo, bloccato da un tumore. Quando i medici gli diagnosticarono il cancro, lui, un omone possente dai capelli rossi, ha pensato subito alla sua amata e ha espresso il desiderio di “morire” con lei.

Il tifo oltre l'ostacolo. Il tifo che non si ferma davanti a nulla, che sia la morte o che siano impegni “divini”. Ne sa qualcosa Ben Crockett, parrocco di Mickleover, un piccolo paesino dell'Inghilterra centrale. Lui ha emesso la sua sentenza: il sabato pomeriggio niente matrimoni, gioca la mia squadra del cuore. Poi c'è il tifoso che non bada a spese e che lascia in eredità 180mila euro alla propria squadra, il Leyton Orient, club londinese che milita nella League One, la nostra Lega Pro. Il calcio non conosce latitudini. Lo sapeva bene quel tifoso inglese che ha lasciato il suo lavoro, ha venduto la casa, ha preso moglie e figli e si è trasferito in Spagna. Un cambio di vita per seguire il suo idolo: Gary Linkener, acquistato dal Barcellona. “Vederlo giocare soltanto una o due volte all'anno mi era diventato insopportabile”, commentò. E così ha fatto armi e bagagli, oltre a quattro biglietti di sola andata. Quando si dice che il calcio non ha limiti. È vero, ma non sempre. Perché se stai per svaligiare una casa e ti trovi davanti un giocatore che oltre ad essere il tuo idolo è anche il proprietario dell'appartamento i limiti e gli scrupoli possono sorgere. È successo anche questo. L'amore per i colori della Sampdoria ha salvato dal furto Toninho Cerezo. Il calciatore carioca quando è rientrato a casa ha trovato il malvivente che stava facendo man bassa dei suoi oggetti preziosi, ma quando il ladro si è accorto di chi fosse si è fermato e si è scusato. Insomma, il tifo a volte funziona meglio dell'antifurto.

Ci sono poi quei tifosi che rasentano la megalomania. Come Petre Ciobanu, anziano romeno, che alla vigilia dei Mondiali di calcio del 1998 si recò nella cattedrale di Iasi, nel Nord-est del Paese, e accese non uno, ma diecimila ceri. Ce ne sono altri di tifosi per i quali il detto “Finché morte non ci separi" vale meno di niente. Come quel padre che - perentorio - ordinò al figlio: “Quando sarò morto, voglio che mi rinnovi l'abbonamento e mi porti ogni domenica alla partita”. Volontà rispettata. E così il figlio ha fatto cremare la salma del padre e quando la squadra spagnola del Betis gioca in casa porta con sé le ceneri allo stadio. Immortale, infinito, irrazionale, insensibile al dubbio e all'incertezza: il tifo, quello vero, è così. Lo trovi negli occhi di un ragazzo che esulta, nelle lacrime di una delusione, nel pallone che sfonda la rete e fa gonfiare il cuore. Inarrestabile anche quando si ferma.

Perché, come disse Jorge Luis Borges: “Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio”.

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