Travaglio difende il pluralismo ma solo quello delle sue idee

Quando c'era il Cav, il Fatto attaccava ogni giorno i tg Rai. E adesso si è accorto che con Renzi è peggio

Travaglio difende il pluralismo ma solo quello delle sue idee

Marco Travaglio, sembrerà strano, ma a me suscita simpatia. De gustibus non disputandum. Esperto com'è di pagine giudiziarie, riesce sempre a rigirare in suo favore le sentenze e, soprattutto, il lessico imperscrutabile con cui vengono scritte. Il direttore del Fatto ha vinto - come ha scritto lui stesso sul suo giornale - una causa con il sottoscritto, ma solo perché il giudice in questione ha ritenuto che affermazioni come «Minzolingua», e altre tipiche del vocabolario «travagliese», appartengano alla satira. Per cui in quest'ottica polemizzare con lui, sarebbe come polemizzare con Crozza. E la polemica fatalmente si trasformerebbe in una «gag», che lascio volentieri ad altri. Ma a parte ciò il nostro, nel suo infinito travaglio, osserva, un po' come i vecchietti che discettano ai giardinetti, che nell'informazione al peggio non c'è mai fine. Che l'era del Cav - alla Rai e non solo - era meno peggio di quella di Renzi. Non mi azzardo a dire che abbia ragione, ma sono sicuro invece che in quegli anni - «bui» per gli annali della sinistra - c'erano un'informazione e una Rai più pluraliste: c'era il Tg1 di Minzolini, ma c'erano pure Santoro&Travaglio. Poi Lorenza Lei, il direttore generale della tv di Stato di allora, fece fuori prima la «premiata coppia» e, qualche mese dopo - in ossequio al governo Monti - il sottoscritto, regalando la tv pubblica al conformismo. Iniziò un processo che ha trasformato la Rai, e in genere l'informazione nei giornali, in quel Moloch che è oggi, a cui vengono spesso sacrificate non solo le notizie che dispiacciono al governo, ma anche i punti di vista. Se una volta gli affreschi erano dipinti con colori vivaci e contrastanti, ora nell'informazione c'è solo una tonalità: il grigio. Non ci sono più opinioni diverse. O comunque ce ne sono sempre meno. Ogni visione dissenziente è vissuta con fastidio. Ma il processo non è di oggi, è cominciato allora. E Travaglio ne è stato protagonista, complice e, magari, anche vittima.Per spiegarlo prendo spunto dall'affermazione del direttore del Fatto sul caso D'Addario, per cui al Tg1 avrei sottaciuto o derubricato a «gossip», una vicenda che «appassionava persino la tv canadese e turca». La domanda che mi posi allora era un'altra: perché in un Paese che nel Palazzo aveva sempre evitato di guardare sotto la cintura, improvvisamente quel tabù era caduto? In quei mesi, lo scrutare nelle stanze da letto, o meglio in una stanza da letto, divenne uno sport di grido: prima all'estero e, poi, da noi. La risposta me la diede qualche anno dopo un libro-inchiesta, non di un giornalista italiano ma di Alan Friedman. Quelle vicende erano i prolegomeni di un complotto, pianificato all'estero e messo in atto nel Belpaese, di cui da noi si è parlato poco e male. In Italia gli eventi che determinarono la nascita di un governo - quello guidato da Monti - di cui i cittadini di questo Paese portano ancora i segni nelle loro tasche, sono sempre stati trattati come «gossip». Eppure i testimoni di quei fatti sono ex capi di Stato, ex premier ed ex segretari del Tesoro Usa.Ora io ho sempre rispettato le tesi di Travaglio, il suo punto di vista, ossessionato dal Cavaliere pigliatutto e onnipotente, lui, invece, non ha mai rispettato il mio e quello di altri che quel complotto non solo lo hanno descritto, ma lo hanno vissuto. Al solo accennarlo se ti andava bene ti beccavi l'accusa di servilismo, se ti andava male qualche sinonimo di «macchina del fango». Eppure il rispetto del pluralismo, dei punti di vista diversi, sono l'humus del giornalismo. Sono l'unico antidoto al conformismo. Anche perché nessuno è depositario della verità e le opinioni spesso cambiano. Ad esempio, il Tg1 da me diretto, per usare il gergo giornalistico, tenne in piedi la vicenda della trattativa Stato-Mafia. Una particolare attenzione figlia dell'assenza di logica nei fatti che si susseguirono nella calda estate del '93: come mai a pochi mesi dai morti di Firenze di via dei Georgofili, lo Stato decise di togliere dal carcere duro del 41bis trecento mafiosi? Ebbene, io all'epoca fui attaccato dal Fatto di Travaglio che individuava in questa mia attenzione sul «caso» un modo per mettere in difficoltà Oscar Luigi Scalfaro, figura centrale di quella vicenda, nonché presidente dell'associazione salviamo la Costituzione. A pensarci oggi mi viene da ridere. Poi, morto Scalfaro, il Fatto e Travaglio decisero giustamente di cavalcare quella vicenda.Già, i punti di vista spesso cambiano e se si criminalizzano o si ridicolizzano quelli degli altri, a volte per ricredersi si è indotti a fare mille acrobazie. Finché c'era il Cav al governo, ad esempio, per Travaglio l'allora capo dello Stato, Napolitano, era un santo. Poi, il direttore del Fatto, che ha un rispetto quasi sacrale per le intercettazioni, ha assistito alla distruzione per volontà del Quirinale di quelle tra Napolitano e Mancino. Un unicum negli ultimi venti anni, ma per lui anche un affronto. È fatale: l'uomo stimabile di oggi, può trasformarsi in futuro in ben altro. O viceversa. Nei famigerati - per un certo mondo - editoriali al tg1 il sottoscritto nel 2011 criticava la politica tedesca e l'operato delle agenzie di rating. All'epoca erano un aiuto al Cav. Ora gli stessi argomenti li trovi sul Fatto e, magari, anche sulla bocca del premier. Ecco perché va salvaguardato il pluralismo, vanno rispettate le opinioni: meglio tanti Tg con anime diverse, che una melassa al servizio del potente di turno che è l'anticamera di ogni regime. Ma per salvaguardare il pluralismo, bisogna anche recuperare la categoria del dubbio, il rispetto della diversità, ben sapendo che ognuno ha le sue contraddizioni. Ora tutto si può dire meno che il direttore del Fatto non abbia simpatia per la magistratura e non ne sia contraccambiato. Ma se uno ha vissuto in Italia dal '92, oggi sa benissimo quanto conti nel nostro Paese la magistratura. Questo per dire che se in Italia c'è un regime, la magistratura ne fa parte. Anzi, ne è una parte importante.

Magari il direttore del Fatto farebbe bene a porsi anche questo dubbio nei suoi giudizi su questo Paese. Malandato. Comunque non mi dispiaccio di aver perso la causa con lui. Semmai mi dolgo di averlo querelato. In questi tempi disgraziati una legittima difesa.

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