Sulle ceneri di Paolo Borsellino e della sua scorta si consuma, a un quarto di secolo dalla morte, il rituale dell'indignazione postuma non contro i suoi assassini - ormai noti, catturati e condannati - ma contro il magma astratto delle complicità istituzionali, dei mandanti occulti, dei terzi e quarti livelli, delle menti raffinatissime che ne avrebbero per motivi oscuri prima deciso la morte e poi depistato le indagini. Una denuncia che da anni viene dai parenti di Borsellino, insoddisfatti in partenza di ogni verità processuale, ma in qualche modo giustificati dal dolore; ma cui ora si associano le più alte cariche dello stato e i vertici della magistratura, per non parlare di commentatori e dietrologi vari, compresi alcuni che con i presunti depistatori avevano rapporti di aperta amicizia, quando erano vivi e potenti.
Tutto sarebbe un po' più facile da decrittare se i personaggi chiave fossero ancora vivi: ma dalle stragi di Capaci e via d'Amelio sono passati ormai venticinque anni. E così la polemica che riparte, virulenta e confusa, sui «mandanti occulti» delle stragi e sul depistaggio delle indagini, investe anche uomini che non possono più difendersi né dare spiegazioni: come il poliziotto Arnaldo La Barbera, allora capo della Mobile a Palermo, o il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, o il capo dei servizi segreti Luigi De Sena, tutti tirati in ballo in ruoli diversi come attori di un gigantesco complotto per portare le indagini - soprattutto quella sull'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta, il 19 luglio 1992, a distanza di sicurezza dalla verità. Da Pietro Grasso a Antonio Ingroia, è tutto un fiorire di appelli accorati e vibranti a scoprire non si sa cosa. L'occasione è la decisione del Consiglio superiore della magistratura di rendere pubbliche alcune carte su Borsellino, tra cui l'interrogatorio cui l'allora procuratore di Marsala venne sottoposto nel 1988, nel procedimento disciplinare originato da un paio di interviste. Carte che in realtà non raccontano molto di nuovo: si coglie con chiarezza come Borsellino (come pure il suo amico Giovanni Falcone) fosse visto con diffidenza anche da una parte dello stesso Csm. E questo, purtroppo, già si sapeva. Ma da lì parte la raffica delle polemiche sulla presunta verità mutilata sulle stragi del 1992. Iniziano le due figlie di Borsellino, Fiammetta e Lucia, e la sorella Rita, da sempre convinte di un livello superiore. «Ci vorrebbe un pentito nelle istituzioni», dice Fiammetta Borsellino, mentre Lucia parla di «anomalie», «riconducibili verosimilmente a uomini delle istituzioni».
Il tema si trascina da tempo: «I vuoti di conoscenza che tuttora permangono nella ricostruzione dell'intera operazione che portò alla strage di via D'Amelio possono essere imputati anche a carenze investigative non casuali», scrissero già nel 2002 i giudici della Corte d'appello di Caltanissetta: peccato che l'affermazione faccia parte della sentenza che - prendendo per buona la parola di un falso pentito, Vincenzo Scarantino - condannava all'ergastolo persone che con la strage non c'entravano nulla, e che oggi vengono riabilitate.
È su come si arrivò a costruire e prendere per buono il pentimento di Scarantino che si concentrano ieri, più o meno esplicitamente, le prese di posizione dei vertici dello Stato: a partire dal più altolocato di tutti, Sergio Mattarella: «Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato», dice il presidente della Repubblica. E il presidente della Cassazione Giovanni Canzio chiede luce sul «clamoroso e indegno depistaggio» delle indagini. Né Mattarella né Canzio dicono quale verità scottante il depistaggio avrebbe dovuto coprire (anzi Canzio dice che c'è «certezza probatoria che fu Cosa Nostra a ideare ed eseguire il crimine»).
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