Nelle dichiarazioni di diversi esponenti politici e nelle argomentazioni di alcuni commentatori vengono elencate una serie di anomalie che sconsiglierebbero la scelta di capi dello Stato con un certo profilo. Non debbono essere divisivi, debbono essere eletti con un'ampia maggioranza, debbono ricalcare la maggioranza di governo, non debbono essere leader di partito. Poi vai a rileggerti la storia della Repubblica e ti accorgi che di quelle presunte anomalie spesso il Parlamento se ne è infischiato.
Alla lettera «D» c'è per alcuni il precetto che un presidente non deve essere «divisivo», eppure Napolitano fu eletto con appena il 53% dei votanti. Alla lettera «A», come «ampia maggioranza», viene in mente Mattarella che, invece, raccolse appena il 65% delle schede. Alla lettera «G», cioè un'elezione che rispecchi la maggioranza di «governo», la memoria ti porta a Giovanni Leone che fu eletto pure con i voti del Msi. Infine alla lettera «L», cioè il veto sui «leader» di partito, ci vuole poco a ricordare Saragat, che fondò il Psdi, e tutti sanno che se Aldo Moro non fosse stato assassinato dalle Brigate Rosse sarebbe salito al Colle. Lo ammise lo stesso Pertini quando si insediò.
Ora, io non ho alcuna avversione nei confronti di Mario Draghi. Sono stato probabilmente il primo a scrivere più di un anno fa (meno male che esistono le collezioni dei giornali) che la sua disponibilità a fare il premier era propedeutica all'approdo al Quirinale. Ma mi corre l'obbligo di rimarcare la vera anomalia che si racchiude nell'ipotesi di una sua salita al Colle e che il festival dell'ipocrisia che caratterizza la politica italiana tace: non c'è mai stato un premier, dico uno, che da Palazzo Chigi sia salito direttamente al Quirinale. Le altre anomalie hanno avuto dei precedenti in senso contrario, questa proprio no. Non è successo in tempo di pace per non rischiare un vuoto di potere, o addirittura che si andasse alle urne, o, ancora, per non esporre il premier al tiro al bersaglio dei franchi tiratori, figurarsi se il buonsenso potrebbe mai consigliare questo salto mortale mentre siamo in balia della pandemia e delle incognite dell'economia.
Eppure nessuno ne parla, perché ci sono anomalie che fanno comodo e altre no. E visto che parliamo di profili, c'è da chiedersi se nella «squadra Italia» un tecnico di prestigio come Draghi sarebbe meglio utilizzarlo a Palazzo Chigi o al Quirinale. Al governo guiderebbe la politica economica e - visto che lo volevamo in Europa nel ruolo della Merkel - parteciperebbe ai G7 e ai vertici europei. Al Quirinale no. Lì, semmai, ci vorrebbe un politico che chiudesse il capitolo Seconda Repubblica, conoscendone vizi e virtù.
In questa legislatura siamo passati da un governo al suo opposto, fino ad uno tecnico: segno che il sistema non funziona più. E per organizzare il caos c'è addirittura chi ha immaginato di improvvisare il «semi-presidenzialismo».
Ci vorrebbe, appunto, un capo dello Stato di esperienza, di peso politico e centrale negli equilibri, che accompagnasse il Paese per due-tre anni verso l'elezione diretta del presidente, o verso la riforma che si preferisse. Verso, insomma, la Terza Repubblica.
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