Sei anziano? O non ancora? L'emergenza coronavirus mette in discussione ogni certezza in tema di terza età. Rischia di mandare gli over 65 in crisi d'identità. O, almeno, fa riflettere sulla relatività dei dati anagrafici scritti sulla nostra carta d'identità, mettendo in luce qualche cortocircuito.
Nei provvedimenti sanitari governativi di questi giorni c'è, tra le altre cose, un numeretto che fa discutere. È l'indicazione di rimanere a casa «se si hanno più di 65 anni, ma non si è in buona salute». Quindi si fissa a 65 anni l'«età di Stato» oltre la quale si è «vecchi». Primo cortocircuito: com'è che lo stesso Stato ha fissato l'età standard della pensione di vecchiaia a quota 67 anni? Ma come: se si è vecchi a 65, perché bisogna aspettare i 67 per smettere di lavorare? E ancora, secondo cortocircuito (uguale e contrario): com'è che siamo vecchi a 65 anni se il Presidente Usa (Trump), che punta a un altro mandato, ne ha 73 e i suoi avversari ne hanno 77 (Biden) e 78 (Sanders)?
Perbacco, nessuno fa i salti di gioia a sentirsi trattato da vecchio. Quindi serve un minimo di chiarezza. Perché non ci si sogna di mettere in discussione a quale età si è bimbi, adolescenti o ragazzi? La scuola e l'Università scandiscono i sostantivi anagrafici senza possibilità di errore. E con i vecchi?
Al di là del gioco, il punto è che per la terza età le cose sono cambiate molto in questi ultimi 40-50 anni. Si pensi che nel 1974, secondo le tavole di mortalità dell'Istat, un signore di 65 anni aveva un'aspettativa di vita di altri 15, fino a 80. Oggi è un po' diverso: gli anni di vita medi che ha davanti il nostro 65enne sono saliti a 21 (fino a 86). Tornando al '74, è la stessa aspettativa di vita che allora aveva un 56-57enne.
Allora andiamoci piano coi vecchi.
E che questa epidemia abbia almeno il merito di chiarire meglio nell'intero Paese com'è cambiata la società in cui viviamo. E magari insegnare alla politica come si debba più responsabilmente guardare al lavoro, alle pensioni, alla sanità.
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