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Zingaretti e Conte: un patto anti rimpasto

Mancano ancora cinque giorni alla chiusura delle urne e nel Pd già stanno volando gli stracci su come gestire la delicata fase post voto

Zingaretti e Conte: un patto anti rimpasto

Mancano ancora cinque giorni alla chiusura delle urne e nel Pd già stanno volando gli stracci su come gestire la delicata fase post voto. A largo del Nazareno, infatti, il timore è che il risultato complessivo delle regionali non sorriderà ai dem. E questo a prescindere da come andranno le cose in Toscana, certamente la partita più delicata di tutte. Non solo perché si tratta di una regione storicamente rossa, da sempre presidiata dal centrosinistra, ma anche perché a sfidare il candidato del Pd Eugenio Giani è la leghista Susanna Ceccardi. In verità, però, a preoccupare i vertici dem, allarmati da sondaggi tutt'altro che tranquillizzanti, è il quadro complessivo delle regioni al voto (Campania, Liguria, Marche, Puglia e Veneto).

Così, è nelle cose che la strategia da adottare a urne chiuse sia fin da ora oggetto di un confronto serrato tra le varie anime di un partito che ha già vissuto con grande difficoltà la scelta di Nicola Zingaretti di formalizzare il suo «sì» al referendum sul taglio dei parlamentari, storico baluardo del M5s sul quale peraltro il Pd si era espresso contro nei primi tre passaggi parlamentari, votando a favore solo al quarto e ultimo giro come pegno da pagare alla nascita del Conte 2. E il principale tema di confronto - negato decisamente dal segretario dem, ma già gettato in pasto al dibattito pubblico da alcuni big, come il suo vice Andrea Orlando - è l'eventualità di un rimpasto. Con buona pace del ministro degli Affari regionali Francesco Boccia, che derubrica la cosa a «retroscena da corridoio». In realtà, lo scenario in questione è - come è normale che sia - oggetto di confronto da settimane, con un Zingaretti che sul punto sembra avere le idee poco chiare. Prima contrario, poi aperturista, nelle ultime ore il segretario dem viene descritto come molto più prudente. D'altra parte, se la scelta fosse quella di rimettere mano alla squadra di governo rafforzando la presenza del Pd al suo interno, dovrebbe essere proprio Zingaretti a fare il grande passo. Magari, si è già detto più volte, al posto di Luciana Lamorgese al ministero dell'Interno. E molto probabilmente con il ruolo di vicepremier (in coppia con Luigi Di Maio che a quel punto porterebbe a casa una sorta di promozione sul campo). Puntellato il governo, però, si aprirebbero due enormi problemi in casa Pd. Il primo è che un'assenza di Zingaretti a largo del Nazareno favorirebbe la corsa alla segreteria di Stefano Bonaccini, ormai da tutti accreditato come il suo contendente diretto. Il secondo è che resterebbe vacante la poltrona di governatore del Lazio, con la regione che andrebbe al voto anticipato con tutti i rischi del caso. È per tutte queste ragioni che Dario Franceschini avrebbe fatto un gran pressing per dissuadere il segretario dem. Un rimpasto - è il senso dei ragionamenti del ministro dei Beni culturali nonché capo delegazione del Pd nel governo - sarebbe ad altissimo rischio, soprattutto per il partito che finirebbe per esplodere. Parole che avrebbero fatto in parte breccia in Zingaretti, ieri meno incline a cambi di passo.

Anzi, sul punto il segretario dem avrebbe siglato proprio nelle ultime ore una sorta di patto non scritto con Giuseppe Conte. L'accordo tra i due prevede che dopo il voto, comunque vada, non si tocchi nulla. Niente rimpasto, insomma. Neanche un ministro, anche perché in questi casi si sa sempre da dove si parte ma mai dove si arriva. Un accordo che vuole preservare l'esecutivo costi quel che costi, anche perché - hanno convenuto Conte e Zingaretti nei contatti di questi giorni - sarebbe folle far saltare tutto proprio ora che sono in arrivo i 209 miliardi di euro del Recovery fund. Non è un caso, dunque, che proprio ieri il premier abbia fatto riferimento ai finanziamenti in arrivo per dire che sarà quella la sfida su cui il Paese avrà «il diritto di mandarci a casa». Come a dire che fino ad allora - un orizzonte che guarda al 2022 - l'esecutivo non è in discussione.

Questo, almeno, nelle intenzioni del premier e di un pezzo corposo della maggioranza. Ben sapendo, però, che in politica ci sono anche le cosiddette conseguenze inintenzionali e che non sempre le cose sono scontate e lineari. Tutto dipenderà dal risultato che uscirà dalle urne lunedì e martedì tra le sei regioni al voto (sette con la Valle d'Aosta) e il referendum.

Un mix complesso e non del tutto prevedibile.

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