Il cronista che scoprì Ludwig «So chi portò la bomba fino alla stazione di Bologna»

Infiltrato nell’ultrasinistra, fu il primo a riconoscere Feltrinelli sotto il traliccio di Segrate. Smascherò anche un serial killer peggiore di Stevanin. Ora, a 86 anni, scrive libri su Egizi e Romani

Con questo «tipo italiano» ho avuto la fortuna di lavorare per un decennio. Lo conobbi nella redazione dell’Arena. Era l’estate del 1975. Lui aveva già 52 anni e veniva dall’agenzia Ansa di Milano, io solo 19 e spuntavo dal nulla di Verona. Il quotidiano locale mi aveva assunto per una sostituzione in cronaca. La prima sera stappò una bottiglia di champagne. Mica in mio onore, ovvio. Festeggiava con i colleghi i 10 anni dall’esame di Stato che lo aveva ammesso nell’Ordine dei giornalisti. In realtà esercitava la professione già da 30, dal 1945 o giù di lì.
Ho incontrato Gianni Cantù la scorsa settimana. Aveva da poco festeggiato il suo 86° compleanno. Stessa lucidità mentale, stessa passione per i fatti della vita. Anche la sordità, sempre la stessa, perlomeno non peggiorata rispetto alla fine degli Anni 80, quando dovemmo minacciare uno sciopero perché la società editrice dell’Arena si rifiutava di acquistare un amplificatore telefonico da poche migliaia di lire che gli avrebbe reso più agevole il lavoro. A un cronista di nera così, qualsiasi giornale avrebbe fatto ponti, e cimici, d’oro: il primo a riconoscere Giangiacomo Feltrinelli sventrato dalla bomba sotto il traliccio di Segrate; il primo a giungere davanti alla questura di Milano dove Gianfranco Bertoli aveva fatto esplodere un ordigno; il primo ad avvicinare il generale James Lee Dozier appena strappato alle grinfie dei brigatisti rossi. E l’unico a uscire in edizione straordinaria quando fu rilasciato dai rapitori il presidente del Verona Hellas, Saverio Garonzi, e quando fu liberata dai carabinieri la piccola Patrizia Tacchella, figlia del re dei jeans Carrera; l’unico a polemizzare a mezzo stampa con Ludwig, fino a tendere un trabocchetto mediatico che risultò decisivo per la cattura degli irreprensibili studenti Wolfgang Abel e Marco Furlan, poi condannati per 15 omicidi; l’unico ad aver capito che il duo era in realtà un trio; l’unico a conoscere una verità dirompente e mai scritta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna.
Di Cantù dicevano che rivoltasse le tasche dei cadaveri per cercarvi documenti e reperti che nemmeno i carabinieri avevano lo stomaco di recuperare. Dicevano anche che una volta avesse torto il braccio a un malavitoso in rigor mortis, fino a spezzarglielo, al solo scopo di consentire al fotoreporter Costantino Fadda di fotografare un tatuaggio sul polso che ne rese certa l’identificazione. Aveva sempre l’orecchio teso, Cantù. Quello che gli interessava sentire, lo udiva benissimo. Per esempio, quando captava che un cronista stava raccogliendo per telefono la notizia dell’ennesimo incidente mortale al passaggio a livello del quartiere di periferia dove abita tuttora, si precipitava alla scrivania del collega: «Chi è? Chi è?». Viveva nell’ossessione che si trattasse dell’unico figlio, Guido. Me ne sono ricordato nei giorni scorsi, quando ho letto che a Marco Dal Fior, caporedattore del Corriere della Sera, è toccata la sorte crudele di apprendere in redazione che una delle tre giovani vittime stritolate da un Suv sul raccordo autostradale di Varese era il suo Paolo, 23 anni appena.
Dopo essersi occupato per mezzo secolo dei morti contemporanei, Cantù è tornato a coltivare con rinnovato vigore la mai abbandonata passione per i morti dell’antichità. Là era cronaca, qui è letteratura. Una dote di famiglia: lo storico Cesare Cantù (1804-1895), erudito politico lombardo, era prozio di suo nonno paterno e quando nel 1833 fu rinchiuso in carcere dagli Austriaci, col divieto di detenere carta da lettere e matita, riuscì a scrivere i primi capitoli del romanzo Margherita Pusterla sulla carta da bugliolo, col nerofumo ottenuto dai fiammiferi. Finora il pronipote ha pubblicato una ventina di libri, tradotti in varie lingue. L’ultimo s’intitola Vestigia romane (Cierre Grafica), un «viaggio attraverso le province dell’Impero». Quello dei Cesari, si capisce. Sono 286 pagine corredate da un Cd interattivo con le immagini scattate dallo stesso Cantù. Eh sì, perché un tempo i bravi giornalisti portavano a casa anche le foto, come accadde quando intervistò in esclusiva a Parigi l’astronauta russo Jurij Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio. Egittologo di fama, in precedenza aveva passato, sia pure a rate, due anni della sua vita a scavare nelle tombe dei faraoni.
Perché hai tradito gli Egizi per i Romani?
«Se la metti così, ben prima di me aveva tradito Augusto, che si fece effigiare come faraone sui templi tolemaici. Dopo di lui, tutti gli imperatori romani vollero essere faraoni: da Tiberio, che imperversa sulle colonne di Kom Ombo ed Esna, a Decio. Su un architrave dell’isola di Elefantina ho scoperto due ritratti speculari di Augusto mentre compie la corsa rituale del giubileo. Come faraone volle dimostrare al dio Amon e al popolo egizio di possedere le qualità psicofisiche idonee ad assicurare la stabilità del cosmo».
Nelle identificazioni sei sempre stato imbattibile, a cominciare da Feltrinelli.
«Davanti al cadavere straziato di quell’uomo barbuto, con addosso l’eskimo d’ordinanza dell’ultrasinistra, la polizia brancolava nel buio. Ma io sapevo che Giangi era tornato dalla Carinzia e aveva partecipato a una riunione preparatoria a Milano per qualcosa di grosso. Sotto il traliccio di Segrate tutto mi fu chiaro: i rossi volevano provocare la paralisi di uffici, industrie, ospedali, tram, ascensori facendo saltare i due tralicci che da Est e da Ovest portavano l’energia elettrica in città. Ma l’ordigno difettoso aveva dilaniato l’editore».
E come facevi a sapere della riunione?
«Mi ero infiltrato nell’ultrasinistra».
Tu? Un ex ragazzo della Repubblica di Salò?
«I compagni erano molto cólti, bisogna riconoscerlo, ma anche un po’ coglionazzi. Non fu difficile farmi passare per simpatizzante. All’Ansa sceglievo sempre il turno di notte, in modo da poter scrivere i miei libri di giorno. La sera mi telefonava Capanna: “Sono Mario, abbiamo fregato i fasci”. Intendeva dire che a qualche avversario avevano aperto la testa con la chiave inglese. Era quella l’arma del movimento».
Ma poi finisti sulla lista delle Brigate rosse.
«A dirmelo fu Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo, che a differenza del suo allievo Cesare Battisti ha pagato fino in fondo il conto con la giustizia e ha cambiato vita. La conferma arrivò dall’ufficio centrale dell’Ucigos di Roma. Mi fu imposta la scorta».
Tu già giravi armato. Ricordo che tenevi una pistola in una cartelletta di pelle.
«Una Colt Cobra 38 special, sei colpi, un gioiellino. Per fortuna è ancora vergine. Ero stato minacciato per lettera da Vincenzo Andraous».
Il pluriomicida della banda Vallanzasca che in galera partecipò all’uccisione di Francis Turatello?
«Esatto. Squarciarono il petto al boss della mala milanese, gli addentarono il cuore e gli strapparono l’intestino. Andraous non voleva che scrivessi che gli erano stati irrogati cinque ergastoli. Secondo lui bastava “condannato all’ergastolo”. Oggi è un buon cristiano, l’ho pure aiutato ad affermarsi come poeta. Ma allora era un pericoloso latitante appena evaso dal carcere di Treviso insieme col brigatista rosso Prospero Gallinari, che l’anno seguente avrebbe rapito e ucciso Aldo Moro».
Che cosa pensi della cosiddetta «strategia della tensione»?
«Da entrambe le parti, estrema sinistra ed estrema destra, c’era interesse a creare una situazione d’emergenza. Non credo affatto che fosse la strategia della Dc per rafforzare il governo».
Chi mise la bomba alla stazione di Bologna?
«Io posso riferirti quali furono le risultanze delle mie ricerche. In seguito all’attentato rimase per 9 ore sotto le macerie un tossicodipendente di 25 anni, B.S., nativo di Terni ma residente a Verona. Ebbe la gamba destra spappolata e riportò gravi ustioni al volto. Agli inquirenti raccontò che tornava da Roma e che doveva raggiungere Parma. A me invece disse: “Volevo proseguire per Rimini”. In realtà era sceso alla stazione di Bologna per lasciarvi una valigia che gli era stata consegnata nella capitale».
Da chi?
«Da chi, non lo so. Ma dove, sì: all’Eur. Fu lui a confessarmelo. Sul fatto che fosse l’inconsapevole corriere della valigia contenente probabilmente l’esplosivo si sarebbe dovuto indagare a fondo. Per prudenza non scrissi nulla e avvisai il capitano Gennaro Scala, del nucleo investigativo dei carabinieri, il quale a sua volta informò la magistratura. E sai quale fu il risultato? L’ufficiale venne accusato di depistaggio. Da Roma, dal ministero degli Interni, era arrivato infatti l’ordine d’indagare soltanto fra gli extraparlamentari di destra, non fra i tossicomani. Il presunto fattorino della bomba ebbe dallo Stato 100 milioni di lire d’indennizzo, rivalutati oggi sarebbero 215.000 euro, che dissipò in droga nel giro di un mese. Venne ospitato per oltre un anno da un parroco veronese. Il prete fu rapinato in canonica da due complici di B.S., un balordo torinese e un minorenne padovano. Poi il terzetto cominciò a inviare lettere minatorie al sacerdote, con richieste di denaro. Smascherato e processato, B.S. fu condannato a 4 anni e mezzo di reclusione».
Anche al duo Ludwig arrivasti per conto tuo anticipando gli inquirenti.
«La prima vittima fu un nomade abruzzese, Guerrino Spinelli, arso vivo nell’auto dentro cui dormiva. All’ospedale, in punto di morte, raccomandò alla figlia di stare attenta, perché c’erano in giro tre uomini pericolosi: quelli che l’avevano aggredito. In quell’occasione furono lanciate tre molotov, di cui una non scoppiò. Tutti pensarono a bottiglie molotov. In realtà erano fiaschi riempiti di benzina. E nella rivendicazione del delitto si parlava di fiaschi. Ero sulla pista giusta. Quando venne bruciato uno studente torinese in gita, Luca Martinotti, che s’era fermato a dormire col sacco a pelo in una casamatta asburgica lungo l’Adige, ebbi la prova che i folli di Ludwig erano veronesi».
In che modo la avesti?
«Il fortino austriaco era il rifugio abituale di un minorato psichico, che, avendolo trovato occupato dal saccopelista, vi appiccò il fuoco. Insomma, Ludwig non c’entrava. Nel mio pezzo scrissi che l’incendio era partito da alcune torce, un’espressione di fantasia. Prontamente arrivò una rivendicazione che parlava di torce. Mi persuasi che gli assassini erano del posto, leggevano L’Arena. Cominciai a polemizzare con loro. Dissi che si attribuivano anche delitti non commessi, e questo li fece infuriare. Erano in preda a un delirio di onnipotenza. Non a caso nei loro comunicati proclamavano: “Il potere di Ludwig non ha limiti”. Paranoici totali. Mi rispondevano inviando comunicati all’Ansa di Milano, che facevo analizzare dal grafologo Salvatore De Marco. Da lì s’arrivò ai famosi “solchi ciechi” trovati su alcuni fogli bianchi sequestrati in casa di Furlan: a produrli era stata la scrittura con righello e normografo dei loro testi farneticanti».
E il terzo uomo chi era?
«Colui che con la sua Mercedes accompagnò Abel e Furlan alla discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere, dove furono bloccati prima che la incendiassero. Lo riconobbi senz’ombra di dubbio nell’identikit elaborato dagli investigatori a Trento, dove padre Armando Bison era stato ucciso con un punteruolo a forma di crocifisso conficcato nel cranio. Ma la presenza del terzo uomo sulla scena del delitto cozzava contro l’idea che il giudice istruttore s’era fatto di Ludwig, a suo giudizio una coppia impermeabile. Io invece sapevo che era il rampollo di un imprenditore ricchissimo. Oggi è un personaggio molto in vista, ha persino ricoperto alcuni incarichi pubblici».
Il terzo uomo sa che tu sai?
«Credo proprio di sì, ma gira al largo».
T’è dispiaciuto non seguire da cronista il caso del serial killer Gianfranco Stevanin?
«Più che altro m’è dispiaciuto non essere riuscito a far arrestare nel 1976 il suo precursore, un geometra impotente d’origini bellunesi, abitante in un quartiere-bene di Verona, che stordiva le prostitute fratturandogli il setto nasale con un pugno devastante, le seviziava registrando i loro lamenti e poi gli piantava un coltello nel cuore. È morto per cause naturali. Il fidanzato di Fernanda Pellegrini, una delle vittime, era un ladro. S’introdusse nell’appartamento del maniaco e mi portò il nastro con le urla. Di un’altra assassinata, Regina Dalla Croce, ormai decomposta, toccò a me recuperare scalpo, gonna e camicetta: gli inquirenti avevano portato via il teschio, dimenticandosi tutto il resto».
Qual è il delitto peggiore di cui ti sei occupato?
«Quello di Renzo Pavini, un sordomuto strangolato con una calza di nylon e gettato in Adige da tre diciannovenni per rapinarlo di 44.000 lire. Lo avevano atteso nel giorno in cui ritirava la pensione d’invalidità, con la promessa di portarlo a donne. Invece volevano i suoi soldi per comprarsi la droga».
Come ti sembrano i cronisti di oggi?
«Leggi qua». (Mi porge un titolo di giornale: «Per l’ossessione dei ladri uccide un carabiniere»). «Nell’articolo c’è tutto, tranne l’identità del carabiniere. Tanto, che importa? I carabinieri devono crepare e basta. Ma se vuoi ti mostro il ritaglio dell’ottantenne che, armato di fucile, ha litigato “in modo molto cruento” con i vicini».
Non t’impressiona il moltiplicarsi delle crisi coniugali che sfociano in delitti-suicidi e nello sterminio d’intere famiglie?
«Nulla d’inedito. L’unica differenza è che una volta la notizia di paese stentava ad arrivare nel Comune capoluogo mentre oggi ti viene messa nel piatto all’ora di pranzo dai telegiornali nazionali. Sbagliatissimo, perché la banalizzazione del male induce un effetto imitativo».
A che serve la cronaca nera?
«È necessaria al pari della bianca. Non l’ho inventata io la completezza dell’informazione.

Dal mio maestro, Guido Zangrando, che mi assunse all’Ansa, ho imparato due cose: primo, la notizia non ha prezzo; secondo, mai innamorarsi della notizia. La cronaca nera, se sei uomo, serve a farti star male».
(463. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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