«A Cuba non ci sono più comunisti»

Roma«Dove li vede, i comunisti? Lei ne incontra molti? Perché io non li incontro più. Del resto, sarebbe come trovare un monarchico a Parigi: uno fuori di testa, un matto!». Comincia bene l’intervista con Giuliano Montaldo, gasato di suo, dopo anni di mestiere invitto, e tanto più entusiasta, perché a Gavi Ligure, dove il regista di Sacco e Vanzetti si trova in vacanza, ha dormito «con la copertina». Rottura dei tempi, in tutti i sensi: d’un clima meno arroventato, pure ideologicamente, testimonia adesso il suo documentario L’oro di Cuba (prodotto da RaiCinema e Fidia), fuori concorso al Lido, in sala a febbraio. E mentre il nobile metallo tiene banco con la norma sulle riserve auree di Bankitalia, arrivano settantacinque minuti di presa diretta sull’oro cubano, per Montaldo la gioventù dell’«Isla Grande», ancora popolata da anziani malconci, in divisa castrista. Sono loro, i ragazzi che guardano agli Usa e al Vecchio Continente con un «sì, se puede» nel cuore (per inciso: Michelle Obama veste Isabel Toledo e Narciso Rodriguez, non a caso stilisti cubani), la vera risorsa all’Havana. E qua c’è un vecchio leone, già organico alle disciolte Botteghe Oscure, che narra i 50 anni della Rivoluzione di Fidél (nel documentario, rappresentato da una sedia vuota) senza l’insopportabile retorica sul «líder maximo», o l’utopia cubanista, consumata tra barrios e carretere, per la gioia dei nostalgici. Anzi: L’oro di Cuba apre con una bella carrellata sugli eredi della sconfitta rossa. Cecoslovacchia, Bulgaria, Germania Est, Ungheria, Polonia... Tutti muri che cadono. «Manca soltanto “el muro de agua”, cioè questa Cuba, che è il mito di Davide contro Golia», dice il Cavaliere di Gran Croce Montaldo.
Caro Giuliano Montaldo, non le pare che l’America indebolita dalla crisi internazionale, non sia più un gigante da abbattere con la fionda?
«Negli ultimi tempi, certo, l’America non può più mostrare i muscoli. Bush, però, non è stato tenero. C’è stata gente che, nei decenni precedenti, ha subìto violenze, attentati, tensioni di ogni genere».
Parla della Cuba castrista o dell’Italia comunista?
«Ah, ah, ah (ride di gusto, ndr). Noi, i nostri misteri ce li conserviamo: i nostri nipoti sapranno la verità. Questo è un momento di grande cambiamento, comunque, sia a Cuba sia in Italia. Non nasco documentarista: mi sono limitato, nove mesi fa, ad annotare i cambiamenti. E la crisi internazionale non mordeva».
Quali cambiamenti?
«Ora i cubani possono entrare negli alberghi dei turisti. E cominciano ad avere un atteggiamento più aperto. “La storia mi assolverà”, ha detto Fidél, catturato, dopo l’assalto alla Casa Moncada... In due settimane di riprese, ho capito il senso di quella frase».
E qual era?
«Che al di là delle difficoltà e della politica, i cubani amano Cuba. Sono uniti, nonostante la tirannia passata fosse molto potente. Certo, non esistono scuole, cinema, attività culturali, ma va considerato che, negli anni Cinquanta, L’Havana era in mano a Lucky Luciano».
Magari, oltre al gangster italoamericano, avrà pesato il predominio dell’Urss, sulla politica cubana, condizionata dalla rottura con gli Usa, nel 1961, e dall’embargo conseguente...
«L’embargo non finisce mai! Con la prospettiva di smobilitare Guantanamo, le cose cambieranno. Certo, l’Unione Sovietica ha usato i cubani. Sperimentando sul loro territorio micidiali testate nucleari, per spaventare gli americani. Nonostante ciò, trovo i cubani indipendenti dagli altri. Ma dipendenti dal loro mito».
Si tratta dello stesso mito, che sopravvive a sinistra?
«I ragazzi di sinistra di tutto il mondo indossano la maglietta con la faccia del Che: è il mito del personaggio. Ma a Cuba nessuno pronuncia più la parola “comunista”. Ho intervistato molti giovani, trovandoli aperti, liberali, sportivi. Vestono casual e parlano spontaneamente... Ho fiducia in loro. A portare la divisa militare sono rimasti i vecchi».
Ha filmato una società in evoluzione?
«Sì. La parola “comunista”, ormai, si sente solo in Corea. La domanda è: perché Cuba è ancora lì, mentre tutti i muri cadono? Una risposta non ce l’ho».
È il momento di un rendiconto con la Storia?
«Io non faccio rendiconti. La difficoltà, nel documentario, sta nell’avere incontri fortunati...

Ne L’oro di Cuba c’è pure Fidél, però da materiale di repertorio, commosso durante la visita di Papa Wojtyla. Del resto, aveva studiato in seminario».
Progetti?
«Aspetto che al Ministero aprano la cassetta dei soldarelli. Lo chiamerò “l’oro di Bondi”».

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