Franco Dorti
da Milano
l successo planetario di Monopoli ha toccato anche a un Paese del tutto inaspettato: Cuba. Il gioco capitalistico per antonomasia è penetrato in uno degli ultimi baluardi comunisti, dove la proprietà privata e l'accumulazione di ricchezza non esistono. L'edizione cubana ricalca perfettamente quella internazionale che tutti conosciamo, ma l'aspetto è povero: povero il tabellone, in cartoncino sottile e flessibile, stampato in due parti unite con del nastro adesivo; povera la stampa, il cui inchiostro sbava sulle porosità del supporto; poveri i disegni, elementari e imprecisi.
Lo vendono - ma la distribuzione a Cuba non è una certezza: oggi un prodotto c'è, domani non c'è - nei negozi in valuta locale, quelli destinati alla popolazione residente. Quindi non ci può essere dubbio: «Monopoly» è destinato ai bambini cubani. I quali, dunque, giocando di dadi e di «imprevisti» imparano le regole del mercato e dell'arricchimento, le astuzie indotte dal denaro, le sfide provocate dal rischio. Vocabolario impensabile sotto il regime di Fidel, dove il cibo si compra con la tessera annonaria e l'apparato produttivo è tutto statale: curiose contraddizioni!
Nel «Monopoly» cubano il simbolo del ricco è un signore démodé con i baffi, il cilindro e il bastone, e i nomi delle caselle sono un buffo ibrido tra Cuba e Stati Uniti: Avenida Vermont, Ferrocarril Pensilvania, Avenida Carolina del Norte, Avenida Illinois, Avenida Nueva York, ma anche Plaza Santiago, Paseo Tablado e Plaza del Parque. C'è anche una sorprendente «Imposta sul lusso», che i cubani conoscono, forse, solo attraverso la televisione: perchè il lusso a Cuba è solo un'ipotesi astratta, o un ricordo molto lontano.
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