"Non sapevo fare niente, cuoco quasi per caso". Intervista a Carlo Cracco

Carlo da Creazzo: «Avevo 7 in italiano e 4 in cucina L’ultima pasta e fagioli a Roberto Calvi l’ho servita io»

"Non sapevo fare niente, cuoco quasi per caso". Intervista a Carlo Cracco

Carlo Cracco, Creazzo, Vicenza, otto ottobre del Sessantacinque, segno zodiacale: bilancia. Cuoco e chef, imprenditore, sei stelle Michelin, due matrimoni, quattro figli, Sveva, Irene, Pietro, Cesare, tre fratelli, Nicola, Annalisa, Giovanni, onomastica normale, perché Carlo è figlio di Lidia ma soprattutto di Bertillo, variante bizzarra di Berto.

Creazzo, luogo di artisti, gente illustre e del broccolo fiolaro. Paese diviso da “el vien dal monte“, “el vién de la Piasa“,”el vién de qua”, “el vién del pian de là”, “dal Cioso”, “da l’Olmo”.

«I miei, anche i nonni Elisa e Giovanni Schiavo, venivano da l’Olmo. Credo così la mia origine. Tra le persone famose, il presidente Paolo Scaroni, detto il re, poi la cantante Madame, l’oro di Parigi Ceccon che si allena nella piscina del paese. Il broccolo fiolaro non lo conosceva nessuno, veniva considerato brutto e insapore, costava cinquanta lire, oggi ci vogliono cinque euro come minimo. Mio padre me li portava a Milano».

Bertillo, uomo di un’epoca lontana.

«Era operaio nelle ferrovie, un lusso, da militare fu carrista nel centro Italia. Non gli è mai piaciuto ricordare quel tempo. Pochissime parole, in famiglia vigeva il silenzio, nessuna domanda, dialogo impossibile, mio padre diceva che i problemi non si portavano a casa, ci pensava mia madre Lidia ad addolcire quell’atmosfera che era comunque tipica di un tempo ormai irripetibile, lei era il filtro, la sua pazienza è stata decisiva. Fino a quando papà è arrivato ad un’età più robusta, verso i 65-70 anni ha preso a modificare il suo carattere.
Oggi ne ha 97 e Lidia 90».

Carlo Cracco, un lazzarone.

«Non ero uno studente esemplare, elementari a Olmo, medie al Comprensivo Manzoni, molte note sul diario e anche un giorno di sospensione».

Motivo?

«Chiudemmo a chiave un compagno di classe nel bagno della scuola. Pistolotto del preside, nessuna parola di mio padre che mi invitò a parlarne con mamma».

Da lazzarone a chierichetto.

«Per imitare un amico che era entrato in seminario. Frequentavo l’oratorio, don Antonio era un teologo, fece strada diventando vescovo. Dovetti rinunciare, retta troppo alta, corrispondeva a un mese di stipendio di mio padre».

Bertillo che cosa disse?

«Che se avevo davvero la fede l’avrei potuta affrontare più avanti negli anni».

Dicono che il bambino Carlo mangiasse la qualunque.

«Pasta e riso senza limiti, carne e pesce ma un dubbio sul fegato, sapore troppo forte. E poi dolci, tanti dolci».

La passione per la cucina?

«A quel tempo, inesistente. Volevo evitare di frequentare le scuole a Vicenza, erano gli anni della contestazione, giorni e mesi violenti, cercai una alternativa, andai a visitare la scuola alberghiera di Recoaro, era di colore viola, in mezza montagna, la scelsi di intuito».

Tre anni e poi il diploma di chef.

«Essendo goloso ero l’unico a fare pasticceria. Gli altri erano figli d’arte, già pratichi di fuochi, pentole, ricette. Io facevo cento domande ed ero zittito dai docenti, silenzio, guarda, osserva, impara. Mi diplomai con una media del sette e mezzo-otto, non ero un secchione ma approfondivo le materie che mi acchiappavano».

Bravo in tutte?

«Italiano e matematica a posto, prendevo 7. Devo confessare: 4 in cucina».

Cominciamo bene, anzi malissimo.

«Il giorno dopo l’esame, il docente disse ai miei genitori di mandarmi a lavorare in un ristorante. E così fu. La prima cucina, Da Remo, a Vicenza. Era in Contra’ della Caimpenta, avviato da Remo Canton nel 1977 e rilevato da Mario Baratto. Un locale di argenti e cornucopie, tenuto da tutta la famiglia, la moglie Rina, i figli Gianluca e Alver, la cognata Floriana e il nipote Danilo ai fuochi. Mi adottarono».

Subito in azione, insomma.

«Non sapevo fare niente. Il primo giorno mi sono scottato, il secondo mi sono tagliato un dito, il terzo credo di essere caduto. Pulivo le pentole, pelavo le patate, poi imparai a tagliare la carne. Dopo tre mesi feci il mio primo piatto».

Tipo?

«Bigoli con calamaretti, poi passai a pasta con panna, ragù e prosciutto, con eventuale aggiunta di piselli».

Paglia e fieno no?

«Quella era già per ricchi».

Clientela?

«Varia, tranne al martedì, turno di chiusura. Ma non per tutti. Un gruppo di uomini dell’alta finanza del Nord prenotava tutto il locale per pranzo, ristorante blindato, fuori le guardie del corpo, dentro un solo menù, volevano mangiare in trenta minuti massimo, assolutamente pasta e fagioli, poi discutevano di affari. Il Pipa, soprannome del potente banchiere armeno Vahan Pasargiklian, organizzava gli incontri, c’era sempre Roberto Calvi, Banca Cattolica del Veneto e soprattutto Banco Ambrosiano: erano queste le figure a tavola. Martedì 19 maggio 1981 fu l’ultimo pranzo e l’ultima volta in cui vidi Calvi. Due giorni dopo fu arrestato a Milano per reati valutari».

A parte la cronaca nera, imprevista, c’è stata quella rosa. Più prevedibile?

«Il primo amore, Michela, a scuola, acchiappavo già e venivo ricambiato. Poi un giorno a Montecarlo, un mio amico mi presenta sua sorella che si chiama Angela, ci sposiamo, nascono Sveva e Irene. Arriva infine Milano, dunque Rosa, nuova moglie, mi e ci regala Pietro e Cesare».

Rosa non è soltanto madre e moglie, è l’anima dell’azienda agricola Cracco. È figlia di Daniela e di Carlo Fanti che è amante delle auto d’epoca, un Carlo romagnolo di una Romagna che non c’è più.

«Sì, mio suocero, Carlo come me, è tipico ma anche parecchio particolare».

Stelle, televisioni, fama, ristoranti, il rifugio di Sant’Arcangelo, le colline di Romagna che guardano il mare. Creazzo e l’Olmo sembrano lontanissime. Resistono Bertillo e Lidia, memorie fortissime. Tornerebbe indietro?

«No, preferisco vivere per domani. Ho sbagliato, ho pagato, preferisco il sorriso, i sogni li tengo per me».

Nota a piè di pagina: non si ha nessuna notizia del compagno di classe chiuso in bagno.

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