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Contro fabbriche e progresso. Quanto sono "antimoderni" i nostri scrittori (di ieri e oggi)

Esiste un minimo comune denominatore nelle opere letterarie dedicate ai temi del lavoro industriale, dal dopoguerra fino a oggi

Contro fabbriche e progresso. Quanto sono "antimoderni" i nostri scrittori (di ieri e oggi)

Esiste un minimo comune denominatore nelle opere letterarie dedicate ai temi del lavoro industriale, dal dopoguerra fino a oggi: gran parte di esse raccontano la fabbrica (e le trasformazioni che ne hanno modificato il profilo) con uno sguardo non sempre votato all'ottimismo, anzi il più delle volte critico, corrosivo, addirittura ostile. La sensazione è che la lunga parabola della modernità, che nel '900 ha attraversato il Paese modificandone per sempre i suoi connotati, non ha goduto di grandi simpatie presso i letterati, tranne in rarissimi casi, come Primo Levi e Leonardo Sinisgalli, a pieno titolo i più accreditati autori delle «due culture» o Elio Vittorini che, pur non avendo avuto una stretta parentela con il mondo della tecnica era attratto dal moderno ovunque si manifestasse, tanto nelle architetture di un grattacielo newyorkese quanto nella grafica editoriale. A questo scarno elenco si potrebbero aggiungere Antonio Pennacchi ed Ermanno Rea, pieni di fiducia nei valori dell'industrializzazione, anche se chiamati a far da testimoni di alcuni fenomeni l'estinzione della classe operaia e la dismissione degli impianti di produzione che sul finire del secolo scorso hanno messo definitivamente in crisi la nozione di fabbrica novecentesca.

Il quadro è desolante. Poco conta che siano tre o cinque i letterati consapevoli di appartenere al ramo politecnico della cultura novecentesca. Il resto della compagine ha continuato a conservare un atteggiamento di neutrale riserva o ha assunto una posizione di dissenso oppure, in taluni casi, ha avuto il coraggio di spingersi nella zona grigia del rifiuto. Umberto Eco ha trovato per quest'ultimi l'etichetta di apocalittici e non aveva tutti i torti quando scorgeva in Pasolini e in Bianciardi gli esponenti di una cultura che non intendeva cedere alle lusinghe del miracolo economico, anzi ne interpretava in maniera negativa i risvolti antropologici, li considerava insidiosi, destabilizzanti. Marcovaldo, il personaggio di Calvino, in una delle tante sue disavventure operaie riempie il carrello della spesa, salvo poi dover rinunciare a ogni acquisto per difficoltà economiche e riporre mestamente uno per uno gli articoli sugli scaffali del supermercato. Ma non è l'unico attore dell'immensa farsa che agli occhi degli apocalittici si rivelava la società di massa. Il protagonista della Vita agra di Bianciardi, una figura-ombra dello stesso autore, non può scampare alla frenesia milanese se non urlando, al culmine di un monologo tanto snervante quanto originale, il programma di un «neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio».

Il cuore del discorso si trova nel comprendere il perché di tanto scetticismo là dove ci si sarebbe aspettati adesione. Prendiamo Volponi e Ottieri, due autori fondamentali della letteratura neocapitalista, partecipi di un'esperienza aziendale imparagonabile con qualsiasi altra realtà produttiva la Olivetti di Ivrea e di Pozzuoli , autori di romanzi che sembrano non tenere conto dell'eccezionalità dell'impresa in cui si trovarono ad agire, interessati come sono a ritrarre una condizione di spaesamento, un fallimento che da individuale si proietta a valore universale. Tanto Albino Saluggia di Volponi quanto Antonio Donnarumma di Ottieri, i protagonisti di Memoriale e di Donnarumma all'assalto, o sono vittime della fabbrica e della sua organizzazione alienante, oppure non riusciranno mai a farsi assumere. A questo punto è d'obbligo domandarci perché mai gli scrittori italiani (fra i quali figure insospettabili come Calvino e Gadda) abbiano reagito in questo modo proprio durante il periodo che fa da spartiacque tra un'Italia contadina e un'Italia industriale.

Per quale motivo, insomma, anche quando tramontano i caratteri tradizionali del fordismo ed emergono dapprima i fenomeni della delocalizzazione e della globalizzazione, poi quelli della smaterializzazione del posto di lavoro, sui banchi delle librerie continuano ad arrivare titoli che ritraggono la fabbrica secondo una chiave di lettura che fa di essa, in maniera monocorde, il motivo dell'infelicità umana? Fonte di inquinamento, causa di precarietà, luogo di incidenti: sono gli ingredienti con cui di solito viene raccontata. Qualche anno fa Cesare De Michelis era arrivato a formulare un'ipotesi di grande spessore interpretativo: gran parte di quel che era stato prodotto a ridosso del passaggio dalla civiltà della terra alla civiltà delle macchine, romanzi, saggi, poesie, manifestava i caratteri di una antimodernità, termine quanto mai scomodo, addirittura inusuale nel panorama degli studi critici. Come si sia verificata questa anomalia è un tema destinato a far riflettere, però un elemento è certo: non solo c'è stata (e c'è tuttora) una cultura incapace di intercettare le potenzialità dei fenomeni che riguardano il diffondersi delle realtà produttive, ma resta vivo il dubbio che a monte di tale atteggiamento abbia agito una sorta di fraintendimento, un malinteso generato da pregiudizi che sono figli di un humus ideologico, di una cultura politica incline a individuare nella fabbrica l'icona più disumana del capitalismo, il cuore dei conflitti fra classi sociali e dello sfruttamento, il campo di battaglia di una borghesia cinica e senza scrupoli. Non è detto che tutto ciò non si sia verificato nel passato o non debba continuare a verificarsi. Tuttavia non può essere questa l'unica chiave novecentesca nel lessico, nelle strutture del pensiero, nell'approccio con cui continuare a leggere il mondo del lavoro in un tempo che invece sta ben oltre il '900. Apparirà un paradosso, ma è quel che si verifica leggendo i libri di Simona Baldanzi, Gianfranco Bettin, Angelo Ferracuti, Alberto Prunetti, Stefano Valenti. Ci sono scrittori che continuano la tradizione politecnica, ad esempio Piersandro Pallavicini, ma siamo e rimaniamo un Paese antimoderno, probabilmente influenzato dal pensiero crociano che invitava a escludere (più che a includere) il versante tecnico. Antimoderni lo siamo anche perché la tentazione di un ritorno all'arcadia contadina seguita a visitare i sogni di troppi scrittori insoddisfatti della contemporaneità e intimoriti dal progresso.

Questo però è un punto di vista che rischia di confondere i ragionamenti con i sofismi di una retorica tanto astratta quanto inattuale, di fuorviare i tentativi di sopperire ai mali procurandone altri ben maggiori. Di fronte ai pericoli del moderno si può reagire in due modi: o negarli (ma saremmo davvero capaci di rinunciare alle potenzialità che ci elargisce?) o redimerlo dai suoi errori e dalle sue imperfezioni. Che è, molto probabilmente, la vera sfida su cui giocarsi il futuro.

* autore del saggio La modernità malintesa. Una controstoria dell'industria italiana (Marsilio, 2023)

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