La spending review di Leoni? Tagliare l'illusione statalista

In Italia c'è un problema culturale. Intellettuali, lavoratori, pensionati: tutti credono che l'intervento pubblico sia l'unica soluzione. Ma è falso

La spending review di Leoni? Tagliare l'illusione statalista

Quando Bruno Leoni scriveva questi saggi, l'Italia cresceva a ritmi oggi inimmaginabili e, nel 1963, avrebbe raggiunto la piena occupazione. La storia avrebbe dato ragione a Leoni, ma sul momento i suoi avversari avevano buon gioco ad affermare che il comando dell'economia da parte dello Stato non produceva effetti recessivi e altro non era che un correttivo ai bassi salari sui quali si basava il boom economico. Nessuno allora avrebbe pensato che il governo sarebbe arrivato a «intermediare» ben oltre la metà del reddito prodotto.

Anche Keynes, non certo un avversario dell'intervento pubblico, riteneva che oltre un certo limite – superato da un pezzo – la tassazione avrebbe prodotto effetti devastanti e alla fine anche di autentica de-civilizzazione. E tuttavia, lo Stato era considerato uno strumento umano nelle mani di uomini di buon senso dotati di responsabilità politica e ragionevolezza. Come una diga può essere aperta o chiusa per allagare e poi prosciugare i campi, il governo, si credeva, avrebbe potuto andare avanti con alte e basse maree, a seconda della lettura delle contingenze storiche da parte delle classi politiche. Se esiste una lezione e una legge universale ricavabile dallo studio della politica è proprio quella che Gianfranco Miglio chiamava la «legge di gravità del potere»: i governanti vogliono il potere e questo sta alla politica proprio come il profitto sta all'agire economico.

In breve, gli avversari di Leoni, ossia tutti i protagonisti del dibattito italiano del dopoguerra, o non avevano compreso la logica del movimento statale, oppure la volevano assecondare fino in fondo. Bruno Leoni aveva invece capito molto della logica profonda che muove la mano pubblica. Ma la sua prospettiva politica sconta una debolezza ineliminabile, per così dire «di corrente», che investe l'intero spettro liberale del Novecento.

Lo Stato è diventato il principale azionista di ogni famiglia, il socio occulto di ogni impresa, l'entità che dispone di una quota maggioritaria di ciò che un paese produce in un anno. La spesa pubblica ormai è in un vortice di auto-generazione, serve essenzialmente a giustificare la propria stessa continua espansione, a creare illusioni di necessità, a costituire e intessere tele di rapporti necessari fra lo Stato e altre, ben appetibili cose.

Gli artisti, sconsolati, ritengono di poter vivere solo di prebende politiche, e di campare in una società che disprezza il loro lavoro, ma che per fortuna elegge politici che ogni tanto hanno a cuore i problemi dell'arte. I lavoratori dipendenti ritengono di poter ottenere una vecchiaia serena solo per mezzo della generosità statale (che pur costa loro una quota di reddito con la quale, senza essere investitori particolarmente accorti, si garantirebbero una terza età in crociera di lusso).

La spesa pubblica genera una sorta di percezione di «insostituibilità», i percettori di tasse hanno tutto l'interesse a creare l'illusione di essere necessari e insostituibili e i produttori di ricchezza sono pochi, deboli e mal attrezzati culturalmente per porre freni e vincoli di finalità alle spese pubbliche.

La grande opera del costituzionalismo liberale, nato per imbrigliare l'autorità politica e per smantellare l'enorme concentrazione di potere in capo alle monarchie assolute, si conclude con un bilancio negativo da oltre un secolo. Lo Stato onnipotente, cresciuto dalle ceneri del costituzionalismo, sarà cento volte più spaventoso e oppressivo di qualunque monarchia assoluta e le briglie dello Stato di diritto, del rule of law , riusciranno a svolgere una limitata funzione di freno solo nei paesi anglosassoni. Il potere di un Luigi XIV impallidisce non solo dinnanzi a quello esercitato dai capi delle «utopie criminali» del Novecento, ma appare assai poca cosa anche se paragonato a quello dei vari Lincoln, Bismarck o Crispi.

Bruno Leoni scrive queste sue importantissime riflessioni politiche in un periodo storico che è quello del «giorno prima». Il suo mondo vede un liberalismo certo storicamente alle corde, confuso e depotenziato, sommamente in Italia, ma che può ancora partecipare al dibattito. Anzi, proprio dai classici del liberalismo giungono le analisi più convincenti che bollano il nemico dell'Occidente come fallimentare. La Scuola austriaca dell'economia, Mises e Hayek in particolare, sono per Leoni fonte di ispirazione costante e costruiscono adamantine argomentazioni contro il socialismo.

Ma si tratta di una grandissima riflessione di «fedeli attardati di una grande tradizione» ben difficile da riproporre oggi.

Ormai anche se avessimo una cultura politica formata da leoniani di ferro, e non l'abbiamo, se i nostri governanti così come il popolo intero condividessero una posizione morale hayekiana nulla ci potrebbe salvare. La politica ci arriva addosso con tutta la sua coazione a rispondere alle crisi che essa stessa ha causato con altra politica, altre decisioni.

La risposta alla crisi della politica è un more of the same generalizzato.

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