Qualche mese dopo la morte dell'adorata moglie Maggie («la mia musa»), Ray Bradbury apre la porta della cantina all'amico Donn Albright. E laggiù il buon Donn trova gli strumenti utili per riportare alla vita l'ottantatreenne sodale: venti racconti «che non ricordavo più di aver scritto», confessa il maestro della fantascienza. Escono nel 2004 da William Morrow and Company e ora, in questi giorni, negli Oscar Mondadori con il titolo Il pigiama del gatto. Racconti inediti e ritrovati (pagg. 238, euro 12, traduzione di Giuseppe Lippi). Ci sono un paio di storie d'amore ( Il pigiama del gatto e Triangolo ). C'è un piccolo classico come Una questione di gusto , in cui il ruolo di alieni viene rimpallato fra ragni e umani. C'è il tema della «correzione» del tempo: in La Macchina Mafiosa Mescola-cemento si tratta di portare a termine, con geniale artificio, l'ultima opera incompiuta dell'amato Francis Scott Fitzgerald, Gli ultimi fuochi . E c'è anche, insieme a molto altro, la vena grottesca tanto cara a un altro punto di riferimento di Bradbury, Edgar Allan Poe. Viva il capo , di cui in questa pagina proponiamo per gentile concessione dell'editore un ampio stralcio, ha infatti il sapore dell' hoax , della burla tipo La frottola del pallone . Tredici senatori americani si sono giocati al casinò di una riserva indiana del North Dakota tutti gli Stati del Paese e li hanno persi. Sul posto accorre il presidente...
Daniele Abbiati
***
Il presidente degli Stati Uniti piombò nel Grande Casinò Rosso di Pocahontas e si guardò intorno. \
«Sedetevi!» gridò il presidente. «No, rimanete in piedi mentre vi pesto! Statemi a sentire, adesso siete sobri?»
Quelli annuirono.
«Allora abbiamo tutti bisogno di un drink.»
Smith, l'attaché, si precipitò fuori. In un attimo fu servita la vodka.
«Okay, beviamo e cerchiamo di risolvere questo pasticcio.»
Poi li guardò e aggiunse: «Santo cielo, al vostro confronto i Rolling Stones sembrano gli apostoli all'Ultima Cena».
Ci fu un lungo silenzio. \
Il presidente si rivolse di nuovo ai tredici senatori. «Va bene, adesso ditemi come siete riusciti a giocarvi le nostre imponenti cime azzurre e fertili pianure.» \
«Abbiamo cominciato piano e poi ci abbiamo dato dentro. In un primo momento giocavamo a poker, ma ci divertivamo e siamo passati al blackjack. Poi la roulette ci è sembrata la cosa migliore. \ Comunque, lo sa com'è quando si perde, si raddoppiano le scommesse. Anche noi abbiamo raddoppiato, offrendo agli Indiani il North e il South Carolina, e abbiamo perso anche quelli, Dio santo. Poi abbiamo continuato a bere e ci siamo eccitati. Abbiamo offerto il North e il South Dakota e abbiamo perso.»
«Continuate» disse il presidente.
«Poi ci siamo giocati la California.»
«Perché valeva doppio?»
«Sissignore. La California è in realtà quattro Stati: nord, sud, Hollywood e Los Angeles.»
«Oh» disse il presidente.
«In ogni caso, in poche ore avevamo perso tutto e qualcuno ha avuto l'idea che bisognava chiamare Washington, DC.»
«Vi sono grato per averci pensato» disse il presidente.
«Smith, questo delirio ha qualche valore legale?»
«Solo se lei terrà conto delle reazioni di Francia, Germania, Russia, Giappone e Cina, signor presidente.» \
«Signore.»
Il presidente alzò gli occhi.
C'era un distinto personaggio, un nativo americano con un alto cappello. Era molto basso e sembrava una squaw.
Il basso nativo americano disse: «Posso fare una proposta, signore? Il capo del Consiglio Irochese-Waukesha-Chippewa, proprietario del casinò e ora degli Stati Uniti d'America, si domanda se voglia un'udienza con lui».
Il presidente degli Stati Uniti cercò di alzarsi.
«Non si scomodi.» Il signore basso con il cappello nero e imponente aprì la porta e un'ombra solenne dagli occhi di ferro scivolò nella stanza.
Aveva piedi silenziosi come la lince rossa, un'ombra altissima fra le ombre. Non arrivava ai due metri di altezza, ma l'espressione del volto sereno era quella dell'eternità. Nei suoi lineamenti riviveva lo sguardo dei presidenti morti e dei capi indiani perduti. \
La voce tempestosa del proprietario di molti casinò tuonò dall'alto.
Il piccolo messaggero simile a una squaw tradusse.
«Chiede quale sia il problema.» \
Massaggiandosi la testa per calmare il sangue infuriato, \ disse: «Avete rubato il nostro paese».
La voce parlò in cielo e fu tradotta in terra.
«Solo uno Stato alla volta.»
Dalle grandi altezze un mormorio arrivò al piccolo indiano, che annuì ripetutamente.
«Egli propone» riferì il piccoletto «un'ultima mano. Il capo è disposto a scommettere lealmente e forse a perdere l'intera posta.»
Un tremito, simile a quello di un formidabile terremoto, scosse i senatori. Le labbra si atteggiarono a un sorriso. Il presidente sentì il bisogno di svenire, ma lo evitò.
«Un'ultima mano?» gemette. «E se perdessimo di nuovo? Cosa possiamo offrire in cambio?»
Il piccolo indiano riferì alla colonna di carne che sembrava legno rosso ed ebbe la risposta.
«Ci darete Francia e Germania.»
«Ma non possiamo!» esclamò il presidente.
«Ah, no?» fece la gran voce tempestosa.
Il presidente rimpicciolì di due taglie.
«Allora.» L'ombra si muoveva come l'inverno nelle sue altitudini.
«Allora?» pigolò quello che improvvisamente era diventato l'ex presidente degli Stati Uniti.
«Le regole» recitò il piccolo interprete al piano terra. «Se perderete, ci terremo gli Usa e voi costruirete casinò in tutti e cinquanta gli Stati più scuole elementari, superiori e college su tutto il territorio indiano. Intesi?»
Il presidente annuì.
«Se vincerete,» continuò il piccoletto «riavrete indietro l'America, ma dovrete fare le stesse cose: costruire scuole e casinò in tutti i territori, pur avendo vinto.»
«Incredibile!» gridò il presidente. «Non si possono applicare le stesse regole se si vince o si perde.»
Le ombre confabularono tra loro.
«Eppure andrà così.»
Il presidente deglutì e alla fine disse: «Cominciamo».
Le dita grandi come pale del proprietario di cinquanta Stati e relativi Casinò Rossi si agitarono nell'aria. Tenevano un mazzo di carte.
«Il gioco» echeggiò la voce dall'alto.
Il presidente sentì di avere braccia e gambe inerti.
«Blackjack» mormorò il piccolo assistente indiano. «Due carte per uno.»
Alla fine, con lentezza, il presidente posò le sue carte a faccia in giù.
La voce tuonò ancora dall'alto.
Il piccoletto tradusse: «Prima lei».
Il presidente raccolse le carte e un gran sorriso gli illuminò il volto. Aveva cercato di controllarlo, ma senza riuscirci.
Guardò il gran capo indiano e disse: «Ora tocca a lei».
Un tuono in lontananza.
L'interprete ripeté: «Prima ci mostri la sua mano».
Il presidente degli Stati Uniti girò le carte. Il totale era diciannove.
«Adesso lei» sussurrò il presidente.
Il tuono brontolò ancora e il piccolo indiano disse: «Avete vinto».
«Come fa a dirlo,» sbottò il presidente «se non ci mostra le sue carte? Magari ha venti o ventuno.»
Il clima della stanza cambiò improvvisamente e il piccolo indiano ripeté: «Avete vinto. Il paese è vostro. Ancora una cosa».
Porse al presidente un foglio di carta.
C'era scritto: Ventisei dollari e novanta centesimi.
«Quello» aggiunse il piccolo indiano «è il prezzo pagato per l'isola di Manhattan molte lune fa.»
Il presidente prese di tasca il portafoglio.
La voce tonante si fece risentire.
«Lui dice in biglietti di piccolo taglio» tradusse l'interprete.
Il presidente allungò il denaro e la grande mano di legno rosso lo afferrò.
Rimbombando contro il soffitto, la voce parlò di nuovo.
«Che altro c'è?» chiese il presidente.
L'interprete tradusse. «Spera che costruirete molte navi e dice che verrà al porto per augurarvi buon viaggio verso il paese da cui siete venuti. Qualunque sia.»
«Ha detto così, eh?»
Il presidente degli Stati Uniti guardò le carte sul tavolo, voltate a faccia in giù.
«Non dovrei vederle, per essere sicuro di non avervi gabbato?»
Il piccolo indiano scosse la testa.
Il presidente andò alla porta, si voltò e disse: «Cos'è questa storia delle navi? Io non andrò da nessuna parte».
Una voce sussurrò dall'alto.
«Ah, no?»
E il presidente degli Stati Uniti infilò la porta, seguito dai senatori.
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