Quando la bohème era un ritratto e non una caricatura

Dalla fine del '400 a Garcìa Lorca, il tema di un'esistenza senza regole è presente nella letteratura e nell'arte. Ma oggi è soltanto una posa

Quando la bohème era un ritratto e non una caricatura

La mostra «Bohèmes. De Léonard de Vinci à Picasso» presenta già nel titolo la lingua francese, il genio italiano e quello spagnolo e rimanda nel tema a un modello di vita, di costume e di cultura che fu proprio dell'Europa. Non sorprende che dopo il suo battesimo al Grand Palais di Parigi l'esposizione approdi ora alla Fundación Mapfre di Madrid (sino al 5 maggio).
Con La Celestina di de Rojas alla fine del Quattrocento, e La gitanilla di Cervantes all'inizio del 1600 si gettano infatti le basi di ciò che nell'Ottocento letterario romantico farà della Spagna il luogo deputato delle Carmen, delle danze e della vita errante. Ancora nel XX secolo, con il suo Romancero gitano, Federico García Lorca legherà la corrida e il flamenco a una sorgente greca d'origine, una grecità orientale, di marca bizantina. È con il medioevo infatti che il riflusso degli Stati cristiani d'Oriente, l'abbandono dei possedimenti veneziani, il naufragio dei superstiti regni greci davanti alla pressione ottomana, scatenano successive ondate di rifugiati cristiani. È a questo movimento che appartengono le migrazioni degli Zigani medievali verso l'Occidente. Lo stabilirsi di Aegyptioni sive Zingari o Cingari seu Aegyptiaci - come vengono denominati nei documenti in latino - è il risultato di più di un secolo di spostamenti dalla periferia greco-bizantina al cuore dell'Europa.

In quelli successivi il pendolo oscillerà dall'accettazione alla marginalità per poi fermarsi nel rifiuto, e se nel XV e XVI secolo l'integrazione cittadina sarà il modello dominante in Italia e in Spagna, nel Settecento è già all'opera una repressione che fra arresti, confische, interdizioni li trasforma in paria. Vagos y maleantes, vagabondi e delinquenti, è la definizione spagnola che allora li rinchiude nel Sacromonte di Granada facendo loro divieto di uscirne. Quanto al Novecento, secolo per eccellenza di olocausti razziali e soluzioni finali ideologiche, nulla agli zingari sarà risparmiato.
Se questa è la storia reale, quella mitica, non per questo meno reale, racconta un percorso diverso che la mostra, forte di 180 opere, fra dipinti, libri, partiture, affiches pubblicitarie e cinematografiche, dipana attraverso le sale. Perché lo zingaro, ovvero il boemo, ovvero il bohémien escluso e l'artista negletto e miserabile finiscono per intersecarsi affascinando e spaventando chi li circonda. Se il primo incarna una libertà selvaggia, segreta e misteriosa e il secondo glorifica il vagabondaggio, la vita senza regole né legami, è però quest'ultimo a impadronirsi in modo epidermico, ma a suo modo intenso, dell'alterità divenuta propria di un modello di vita, e la codifica nel momento in cui la modernità e la società borghese hanno cominciato la loro marcia vittoriosa lasciandosi alle spalle l'Ancien Régime e il suo combinato disposto di nobiltà, privilegi, condizione servile. Sempre più svincolato da un rapporto di sudditanza nei confronti di un monarca, un principe, una corte o una chiesa, l'artista rivendica per sé proprio ciò che l'aristocrazia ha perduto, un'unicità e insieme una superiorità.

Non è un caso che il termine bohème applicato alla vita artistica veda la luce dopo che in Francia si è spenta l'epopea napoleonica, la Restaurazione dei Borboni ha fallito e la Monarchia di Luglio che ne ha preso il posto sta scavando la fossa alla monarchia tout court. Nel 1845 Balzac, nel suo Un prince de la bohème, ne delinea le coordinate: «Giovani di più di vent'anni, ma che non ne hanno ancora trenta, poco conosciuti, ma che si faranno conoscere, un microcosmo rappresentativo di tutte le persone di spirito e di capacità, ostile alla gerontocrazia sotto la quale ogni cosa in Francia appassisce. La parola Bohème dice tutto. La Bohème non ha niente e vive di quello che ha. La speranza è la sua religione, la Fede in se stessa il suo codice, la Carità il suo salario. Giovani più grandi delle loro disgrazie, inferiori alla loro fortuna, ma superiori al loro destino». Di lì a vent'anni il Rimbaud di Ma Bohème consacrerà il nuovo credo che a Montmartre prima, a Montparnasse e al Quartiere latino poi, trasformano una città in un concetto e un concetto in un mito: non si è artisti se non si è bohémien...

Ancora oggi, il bohemanisme è un valore commerciale forte, così come lo è il nomadismo così strettamente legato alla sua origine storica. Il primo porta con sé l'immagine dandistica di chi disprezza le regole, buone solamente per gli altri, ma in realtà, come attesta il fenomeno, non solo francese, del bo-bo, il bourgeois-bohème, maschera i suoi privilegi (casa, impiego, status sociale) nel segno di un anticonformismo privo di pericoli: niente cravatta, poca igiene, molte manifestazioni e appelli, l'idea di essere all'opposizione beneficiando del potere.

Il secondo rimanda a una libertà primitiva di movimenti, ma fatta con il cellulare, il gps e internet, sempre in cerca all'estero di ciò che ha in uggia in patria, dagli spaghetti alla mamma... Gli uni e gli altri disposti a intenerirsi sul destino dei rom, purché non si piazzino con le roulotte vicino alle loro case di nomadi-bohémien.

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