Addio a Miriam Mafai la "dama rossa" della sinistra italiana

La sua è stata una lunghissima carriera trascorsa tutta all’ombra del Pci. Passò da l’Unità alla Repubblica, di cui fu fondatrice

Addio a Miriam Mafai la "dama rossa" della sinistra italiana

Con la scomparsa di Miriam Mafai se ne va una testimone importante del mondo comunista italiano, oltre che del giornalismo italiano. Più che testimone si potrebbe forse definirla protagonista. Il suo itinerario ideologico e umano fu tutto all’ombra del Pci, finché il Pci esistette, e quando cambiando nome divenne Pds Miriam Mafai si adeguò, e per il Pds fu anche eletta alla Camera. Intimo dunque, direi addirittura inscindibile, l’intreccio fra il corso professionale e il corso politico d’una militante di talento capace di ottenere, passando dalla stampa di partito a quella che lo è meno dichiaratamente - leggi la Repubblica - un meritato successo.

Nata a Firenze nel 1926, Miriam era figlia di due pittori, Mario Mafai e Antonietta Raphael. Cresciuta in un ambiente d’élite intellettuale, militò fin da giovanissima nella sinistra, i cui capi presero a benvolerla. Infatti a 25 anni era assessore del Comune di Pescara. Dopodiché imboccò decisamente, in parallelo a quella politica, la strada del giornalismo. Prima a Parigi come corrispondente del settimanale Vie nuove, poi addetta ai servizi parlamentari dell’Unità, quindi direttrice di Noi donne e inviata speciale di Paese Sera. Non si sottraeva del tutto nemmeno lei, in quegli ambiti di ortodossia falce e martello, alla langue de bois, la lingua di legno della propaganda. Ma sapeva far emergere, anche dai compitini rossi, la sua indipendenza e irrequietezza toscana. Infatti Paese Sera le fu più congeniale di quanto fosse stata l’Unità perché si concedeva, insieme ai settarismi, qualche spregiudicatezza.

Tutta comunista doc, Miriam lo fu anche dal punto di vista sentimentale. Un forte legame la unì a Giancarlo Pajetta, il «ragazzo rosso» (e lei era la «ragazza rossa»). Entrambi avevano alle spalle un matrimonio fallito. Da quello di Miriam e di Umberto Scalia erano nati un figlio e una figlia. La Mafai e Pajetta si intesero benissimo, credo, perché erano entrambi irriverenti e diretti. Miriam credeva davvero allora - e successivamente ammetterà l’inconsistenza di certe illusioni - che il Pci avrebbe trionfato, che l’indipendenza delle ex colonie le avrebbe avviate verso un futuro di democrazia, di libertà, di prosperità. Ero accanto a lei sull’aereo che ci portava al Cairo (1970) per un réportage sulla morte di Nasser (ero al Corriere della Sera). Miriam aveva portato Paese Sera dove un suo corsivo, rievocante la figura del rais defunto, affermava che era passato di vittoria in vittoria. Obbiettai che gli israeliani avevano sgominato gli eserciti egiziani. Replicò che le vittorie di Nasser erano state politiche e morali, si può vincere anche perdendo.

Il grande salto nel giornalismo borghese Miriam Mafai lo fece con la fondazione della Repubblica. Sentì, immagino, che quell’abbandono di trincee dure e pure sarebbe stato indolore, perché la Repubblica si adeguava perfettamente alla sua concezione politica. Molto spesso si è occupata di temi riguardanti le donne e la loro battaglia per una migliore collocazione nella società. Personalmente, quella battaglia lei l’aveva vinta. Presiedette, dall’83 all’86, la Federazione nazionale della stampa italiana, e lo fece con equilibrio.

Miriam Mafai ha lasciato molti amarcord del suo impegno comunista, eccellenti libri, come Dimenticare Berlinguer, Il lungo freddo. Storia di Bruno Pontecorvo, lo scienziato che scelse l’Urss, Botteghe oscure, addio, Diario italiano, Il silenzio dei comunisti. Commenti e memorie sempre interessanti, a volte struggenti. Una volta, quando presiedevo una sezione del premio Acqui Storia, proposi che fosse nominata - e lo fu - Miriam Mafai. Mi piace ricordarlo, anche se gli autori bollati a torto o a ragione come reazionari non ottengono, sull’altra sponda, la reciprocità.

Con L’uomo che voleva la lotta armata la Mafai tracciò una biografia molto acuta di Pietro Secchia, l’estremista cui piaceva che i militanti tenessero in serbo le armi per l’ora rivoluzionaria, il critico implacabile dell’attendismo togliattiano, il cocco di una parte della Nomenklatura sovietica. Da comunista fedele alle direttive del partito Miriam Mafai ha sempre respinto le sirene della violenza terroristica, pur non nascondendo una certa indulgenza per chi vi si impegnò, spargendo sangue. Traggo dal libro di Giorgio Galli Storia del partito armato questa citazione d’un giudizio della Mafai sui compagni che sbagliavano: «I compagni di lavoro ne hanno un ricordo impreciso, talvolta vagamente affettuoso. Il Moretti che ho conosciuto era simpatico, generoso. La Besuschio era delegata della Uilm. Si dava molto da fare anche se in modo un po’ ingenuo, arruffone. Giuliano Iso era uno che discuteva molto, si esponeva anche».

Miriam ha fatto in tempo a

vedere la dissoluzione, se non dei suoi ideali, almeno di tante idee o utopie in cui aveva creduto. Va reso onore alla memoria di una donna capace di forti convinzioni, alla memoria d’una giornalista e saggista di prim’ordine.

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