Cultura e Spettacoli

Adesso la «Cultura» è più autonoma Ma corporazioni e sindacati restano forti

Nulla di epocale purtroppo. La riforma del ministero dei Beni culturali e del turismo, approvata dal Governo e ripresentata ieri dal ministro Dario Franceschini, va nella direzione opportuna di aggredire l'elefantiaco apparato che gestisce la cultura, ma non ha il coraggio di affondare i denti nella carne. Alcuni cauti passi in avanti sono stati fatti, ma la rivoluzione è lontana. Il testo finale è sostanzialmente lo stesso di quello ufficializzato da Franceschini due mesi fa, segno che il tira e molla tra Renzi e il ministro non ha sortito l'effetto di stravolgere la riforma per renderla più bellicosa nei confronti delle corporazioni e dei sindacati che incagliano il settore. Di fatto, la nuova riorganizzazione del Ministero snellisce la sua amministrazione con un taglio di 37 figure dirigenziali, una riduzione delle soprintendenze per accorpamento (si dovrebbero così sopprimere, secondo le prime analisi, 38 uffici periferici nel settore beni storico-artistici e architettonici); le direzioni regionali vengono trasformate in segretariati regionali con funzioni puramente coordinatrici e amministrative; 20 importanti realtà museali avranno autonomia tecnica e contabile; vengono istituiti 17 poli museali regionali e una nuova Direzione generale dei Musei.

Pur nella buona fede della riforma, le perplessità sono tante. Anzitutto, nel testo c'è scritto che «sono individuati i musei e i luoghi della cultura la cui gestione può essere affidata a soggetti privati», ma non si elencano quali, e va da sé che un conto è lasciare ai privati il museo di Canicattì, un conto è il Colosseo.

Poi viene conferita a 18 noti musei (Uffizi, Galleria Borghese, etc...) e a 2 soprintendenze speciali (Pompei, Roma) la possibilità che i direttori siano scelti «tramite selezione pubblica anche tra interni o esterni all'amministrazione», ma non si capisce con quali criteri e chi li sceglie. Se il direttore deve avere, per curriculum, pena l'esclusione, una laurea in Storia dell'arte, dimentichiamoci che i manager si mettano a dirigere gli Uffizi o Pompei, perché verrebbero di fatto esclusi.

Inoltre rimane il Codice dei Beni culturali: il ministro Franceschini dice che adesso i privati possono investire nella cultura. Ma quali privati, quali aziende, quali banche, potranno mai trovare appetibile, per profitto, un patrimonio artistico se il Codice dei Beni culturali continua ad assegnare poteri esclusivi e arbitrari al soprintendente, il cui giudizio sulla tutela è insindacabile, se non avviando una cavillosa procedura di una «commissione regionale di riesame»? Se due musei si vogliono prestare un quadro, anche di seconda mano, il soprintendente finora decide se sì o no, con quali tempi e in quali modi. Vi immaginate possibili investitori e banchieri, abituati alla snellezza della contrattazione privata e del mercato, interagire con queste capziose procedure? Scapperebbero quasi tutti, come fanno oggi.

Finché il Codice rimane intatto, il patrimonio culturale resta sostanzialmente in mano a corporazioni, veti sindacali e apparati.

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