Cultura e Spettacoli

Alvaro come Google Maps Gente in Italia negli anni '30

Mondine, stalle, treni, strade, fiere, calessi. Il ritratto particolareggiato e bucolico d'un Paese che oggi ci sembra lontano come la civiltà etrusca

È un itinerario ma c'è il rischio di perdersi. Perché se non ci fossero i nomi delle nostre città, e se il titolo non fosse Itinerario italiano (Bompiani, pagg. 380, euro 15), potrebbe sembrare un libro di viaggi in un'altra nazione o in un altro continente. L'Italia raccontata con finezza da Corrado Alvaro nel 1933 è anzi un altro pianeta rispetto all'Italia di oggi. La rottura della continuità è tale da rimanere sconcertati. Alvaro mi ha colpito perché è vero che nel '33 non ero ancora nato e non erano ancora nati nemmeno i miei genitori, ma i miei nonni che tanto alla mia educazione hanno contribuito erano nati eccome, e quegli anni credevo indirettamente di conoscerli. Degli anni Trenta italiani conosco e apprezzo l'arte, la letteratura, l'architettura, e i quadri di Donghi così come i libri di Comisso e gli edifici di Muzio mi appaiono sempre vivissimi. Nel '33 Manlio Cancogni era quasi un uomo, ed erano quasi ragazzi Giorgio Albertazzi, Guido Ceronetti, Raffaele La Capria, Ida Magli, Carlo Ripa di Meana, per citare qualche maestro che ancora insegna, e Giorgio Napolitano andava già a scuola. Insomma di quell'epoca non ci restano solo ricordi ma anche presenze. Eppure l'Italia raccontata da Alvaro è irriconoscibile, sembra lontana da noi come la civiltà etrusca o dei nuraghi.

«I cavalli animano della loro presenza la via Emilia, al trotto, ai carrettini, ai calessi». Bene, io che sulla via Emilia sono nato e cresciuto, e che sto scrivendo esattamente a 260 metri (ho controllato su Google Maps) dall'antica consolare, di cavalli da queste parti ne ho visti solo nelle macellerie equine.

«È un'umanità che ha la terra dura, il lavoro duro. Arano con talvolta tre o quattro coppie di buoi per aprire la terra». Sembra di leggere Virgilio ma è sempre Alvaro che perlustrando la Val Padana coglie soprattutto gli aspetti agricoli: perché la sua Italia era agricola come quella del poeta delle Georgiche e le tecniche colturali erano all'incirca le stesse, vecchie di millenni, fondate sul sudore della fronte umana e del muscolo animale.

«Il contadino che m'ha accolto sulla soglia della sua stalla, vestito di buona stoffa e di buon taglio, vestito da festa perché è Sant'Antonio abate protettore degli animali». Poche righe che rimandano a un mondo estinto in cui esistevano i vestiti della festa, i sarti che cucivano i vestiti della festa, e i santi che davano nome e senso alla festa. Per carità di patria eviterei confronti col nostro presente a base di Zara e Halloween.

«Per due giorni, da Vercelli e da Mortara, i treni hanno trasportato 60.000 mondariso, delle 180.000 che lavorano ai trapianti nelle risaie, verso i loro paesi in Lombardia e in Emilia. Erano treni speciali composti soltanto di donne». Il capitolo dedicato alle mondine è uno dei più brevi e dei più impressionanti, se non avete tempo leggetevi solo questo. Lo stesso autore è molto evidentemente turbato dal fenomeno: 180.000 ragazze per forza di cose poco vestite, concentrate nel periodo estivo in un territorio relativamente piccolo, per giunta libere dal controllo famigliare perché finalmente lontane da casa, avrebbero scatenato la fantasia di chiunque. «Cantano, gridano, ridono»: è difficile anche solo immaginarsele, 180.000 ragazze italiane felici di compiere un lavoro faticoso e umile. Provate a far cantare «i canti d'amore e i canti patriottici» a 180.000 operatrici di call-center.

«Esiste nell'antiquaria, nell'argenteria, nel mobilio, uno stile che si chiama Vecchia Torino». Io che pure qualche legno tarlato lo possiedo, e che in passato di libri sull'antiquariato ne ho letti, di questo stile non avevo mai sentito parlare. Nemmeno internet ne ha mai sentito parlare. E siccome quello che non è su Wikipedia va considerato mai esistito bisogna pensare che Alvaro si sia inventato tutto, come del resto sospettavo fin dall'inizio: queste non sono prose di viaggio ma storie fantastiche per le quali il titolo più giusto sarebbe stato «Corrado nel paese delle meraviglie».

«Strade come il corso Buenos Aires, una delle più caratteristiche d'Italia e dell'Europa intera, una vera assemblea popolare italiana: è il popolo italiano in una delle sue invenzioni più aperte». Come tutti sappiamo, a Milano un corso Buenos Aires esiste veramente: ma cosa c'entra con questa descrizione? A chi mai verrebbe in mente di definirlo caratteristico? Quel canalone fitto di insegne anglofone, bar cinesi e venditori abusivi di vari continenti, chi mai potrebbe oggi considerarlo un simbolo di italianità?

«Tra lo squillo dell'incudine ed il raschio della pialla che è il suono di molti paesi qui, sulle soglie delle porte o nelle stanze a terreno le donne lavorano i loro pizzi e ricami». Qui Alvaro non è in un presepe, è nelle Marche. Io non dirò mai che si stava meglio quando si stava peggio, sono anzi convintissimo che in Italia si stesse meglio quando si stava meglio ossia negli anni Sessanta del boom e negli anni Ottanta della Milano da bere. Però lasciatemi ammirare in pace queste idilliche scene anni Trenta.

«In alcune di queste contrade hanno abolito la stazione dei carabinieri. Non s'è mai sentito dire d'un delitto o d'un furto». Il calabrese Alvaro non poteva tralasciare il Sud ma il virgolettato non è, come si potrebbe immaginare, relativo a qualche isola felice delle Eolie. Tenetevi forte: Alvaro qui si riferisce ai paesi vesuviani e quindi starà descrivendo la Ottaviano di Raffaele Cutolo o la Torre Annunziata di Valentino Gionta, tanto per fare due nomi da 41 bis.

L'avevo detto che c'è da rimanere sconcertati.

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