Sembra paradossale, ma nell'era della presidenza Trump gli scrittori di New York, città roccaforte degli intellettuali pro Hillary Clinton, se da una parte continuano a firmare editoriali e invettive (del tutto o quasi inefficaci) contro il nuovo corso della Casa Bianca, dall'altra sembrano una «generazione silente». A parte Paul Auster con il suo 4321, la maggior parte degli autori upper class non sembra più scrivere nemmeno una parola in forma di volume. Al contrario, le nuove e più potenti voci della letteratura americana stanno nascendo in quel Sud degli Stati Uniti colpevoli di aver portato Trump nella Sala Ovale. Tale fenomeno letterario vanta una grande tradizione (da Sherwood Anderson a William Faulkner, da John Steinbeck a Flannery O'Connor), ma da decenni non si manifestava con questa forza. E mentre i maggiori editori italiani continuano a puntare su scrittori mainstream, ormai allo stremo delle forze e delle carriere, sono gli editori cosiddetti minori a far emergere questa nuova realtà. Ci si chiede perché gli inviati dei giornali e delle tv, le serie televisive, i film continuino a presentarci quegli Stati - dal Texas alla Carolina del Nord, dal Missouri alla Florida, dal Kentucky all'Oklahoma - come culturalmente arretrati. Certo, la letteratura southern di quell'arretratezza è ancora testimone, ma soltanto a una prima lettura: perché sotto quella cenere cova non solo un fuoco di esasperazione da Bibbia&Fucile, ma anche una voglia infinita di riscatto che è da sempre il tema, mai abbastanza evidenziato, di scrittori anche ritenuti classici. Twain, Faulkner, Styron, Anderson, Thomas Wolfe non sono quasi mai stati letti sotto traccia, ci si limita a decantarne la poetica della disperazione.
Queste considerazioni nascono dalla lettura di una delle raccolte di racconti più riuscite degli ultimi anni: Nelle terre di nessuno di Chris Offutt (Kentucky, 1958), appena pubblicata dalla nuova minimum fax diretta da Luca Briasco (pagg. 156, euro 17, traduzione di Roberto Serrai). Il titolo originale è Kentucky Straight, il nome di un bourbon invecchiato a cui non sono aggiunti coloranti o aromi, come per ribadire che queste «terre di nessuno» non sono edulcorate, non sono imbottigliate in serie. Certo, la Natura, soprattutto quella umana, da quelle parti è spesso brutale, la vita può sembrare una fragile bottiglia con vuoto a rendere, e comunque difficile per la fame di violenza che sembra insita nei cuori lacerati da troppa rigidezza, non solo climatica. Ma è proprio qui, in queste terre, che incontriamo i nuovi Omero americani: come Offutt che racconta l'epica di questi eroi del quotidiano troppo spesso dimenticati, rimossi perché considerati poveri diavoli e non, invece, gli ultimi veri testimoni di un'America che troppo spesso dimostra, nella pochezza scintillante delle multinazionali, di essere soltanto un errore di navigazione. Offutt, diversamente da quanto hanno scritto a oggi tutti i critici in Italia, non esordisce con questi racconti. Aveva già dimostrato il proprio talento con la short story inclusa in La super raccolta di storie d'avventura del 2004 (Mondadori), antologia curata da Michael Chabon e originariamente pubblicata come numero unico di McSweeney's, raffinatissima rivista di Dave Eggers. Offutt ci consegna, come fossero uomini veri da strozzare, personaggi così pieni di amore sprecato, malandato, buttato, maledetto, da farci benedire la sua scrittura, da farci capire come dietro il dirupo emotivo di protagonisti più «border live» che border line ci siano esseri umani che portano i propri errori come carte d'identità, le cicatrici della vita come passaporti. Il problema è che, dannati tra queste «terre di nessuno», sembrano non muoversi mai. Soltanto a libro chiuso capiamo che in realtà si sono mossi. Eccome: tanto da essere dentro di noi.
Come A caccia nei sogni, secondo romanzo della «trilogia di Grouse County» firmato da Tom Drury (Iowa, 1956), appena pubblicato da NN editore (pagg. 232, euro 18, traduzione di Gianni Pannofino). Drury racconta l'imprevedibilità di vite solo apparentemente ordinarie perché «la fine dei vandalismi» (prendendo a prestito il titolo del primo libro) non trova requie in protagonisti dalla «luna inclinata», personaggi di una famiglia a dir poco problematica in cui ogni componente rappresenta una parte di quel Midwest che «sta cercando di ottenere qualcosa senza ancora sapere come fare». Tutti legati a un destino (s)radicato alle origini di un mondo sempre in bilico tra il realismo sporco delle tradizioni, quelle di un passato shotgun (come si definisce nel Midwest «un colpo di fucile a bruciapelo») e aspirazioni perdute e sogni infranti nella polvere di fantasmi sempre presenti per una gioventù cresciuta più nel buio delle proprie stanze che in quello delle strade bruciate dal vento della mancanza.
Perché è vero che «il dolore è la più solitaria delle emozioni: ci trasforma in isole», come scrive Greg Iles in Mississippi Blood, l'ultimo volume di una trilogia (dopo L'affare Cage e L'albero delle ossa, tutti editi in Italia da Piemme) che è una delle maggiori opere di narrativa popolare degli ultimi anni. Iles, nato a Stoccarda nel 1960, ma cresciuto a Natchez, Mississippi, e amato da autori come John Grisham e Stephen King, rende incandescente quel «buio oltre la siepe» che ancora alligna non solo nel Midwest. Anzi, in quelle «terre di nessuno» emerge con più veemenza il fallimento del multiculturalismo tanto osannato dalla presidenza Obama. Iles ci racconta, con una potenza letteraria che ha quasi il respiro di un classico, un mondo in cui le tensioni razziali possono apparirci d'altri tempi, ma continuano a incendiare i cuori dell'America.
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