Come viene vista la letteratura italiana da un intellettuale di New York? Lasciamo perdere le chiacchiere, propongo un esperimento semplice: cercate su Amazon i libri di Alberto Arbasino, tra i nostri più grandi scrittori viventi. Ma non in italiano, in inglese. Tanto per sapere: avranno letto Fratelli d'Italia negli Stati Uniti? Sarebbe il vero capolavoro del postmoderno internazionale, Brothers of Italy, altro che Barth e Barthelme. Subito dopo cercate Giorgio Faletti, tanto per dirne uno. O Fabio Volo, tanto per dirne un altro. Risultato: di Arbasino non troverete niente, dei secondi tutto.
Altro esperimento facile: andate a vedere le classifiche degli scrittori italiani più apprezzati negli Stati Uniti. Stessa zuppa: non troverete né Arbasino né Aldo Busi né Antonio Moresco, tantomeno Massimiliano Parente o Isabella Santacroce, neppure un Michele Mari. Piuttosto ancora Volo, ancora Camilleri, perfino dotte disquisizioni su One Hundred Strokes of the Brush Before Bed di Melissa P. Tra i classici contemporanei, il solito The Leopard di Tomasi di Lampedusa, Christ stopped in Eboli di Carlo Levi, e tanto Calvino e tanto Eco un po' dappertutto. Tra un Faletti e l'altro, ovviamente.
Tuttavia, e qui viene il più bello, se al contrario analizziamo chi sono gli scrittori statunitensi viventi reputati più grandi dagli italiani, saltano fuori: Wallace, Pynchon, Roth, Vollmann, McCarthy, Joyce Carol Oates, insomma più o meno quelli giusti. Oh, ma che strano, e perché non Wilbur Smith? Perché non Clive Cussler?
In altri termini la percezione dell'autorevolezza di un autore americano coincide, tanto in patria quanto all'estero, con la qualità letteraria. Nessuno, né qui né lì, si sognerebbe di candidare Patricia Cornwell al Nobel (la quale fra l'altro è molto più alta letterariamente di tutti gli sfigati vincitori dello «Strega» che gli italiani si ciucciano ogni anno). Cioè: come negli Stati Uniti viene reputato autorevole Philip Roth e non l'autore di best seller, è così anche da noi, ma vale solo per gli americani e gli stranieri in generale. Per quanto riguarda gli scrittori italiani scambiamo spesso e volentieri il best seller per letteratura, la commerciabilità con l'autorevolezza.
Ma di chi è la colpa? Gli editori fanno la loro parte, lo si vede nella gestione (commerciale) dei premi nazionali italiani: sono Einaudi, Rizzoli, Mondadori, Feltrinelli, a spartirsi la torta delle candidature a «Strega» e «Campiello», proponendo i titoli più vendibili travestiti da letteratura. Un tempo Dwight MacDonald li definiva «Midcult», oggi si candida direttamente il «Masscult». Infatti giustamente Raffaello Avanzini della Newton Compton non si capacita: se è così, perché non noi? Perché Carofiglio sì e Massimo Lugli o Marcello Simoni no?
In genere si richiede una spruzzatina di impegno, basta parlare di operai, immigrati, disoccupazione e disagio giovanile e poi puoi avere la lingua di un Harmony, anzi è richiesta, anzi spesso sono meglio gli Harmony. Sophie Kinsella sarà pure chick-lit ma è diecimila volte meglio come scrittrice di Emanuele Trevi (sempre come scrittrice). In pratica gli editori italiani arrivano alle fiere internazionali e nella compravendita dei diritti smerciano, carte alla mano, l'ultimo «Strega» e l'ultimo libro in classifica, i quali giocoforza coincidono, quindi non c'è bisogno di sforzarsi, successo di pubblico e di critica.
D'altra parte non so cosa promuovano gli Istituti di cultura italiana nei vari Paesi in cui sono sorti come funghi, ogni tanto ne sento nominare uno e mi viene tristezza. Probabilmente l'andazzo è lo stesso e comunque ho l'impressione che all'estero questi istituti siano reputati sfigati quanto da noi lo sarebbe un'ambasciata della narrativa ugandese. A Londra, per dire, c'è stato Mario Fortunato, sarà per questo che i libri di Mario Fortunato in inglese sono già reputati dei classici, altrimenti non si spiega.
Altra colpa ce l'hanno gli atenei italiani. Non solo perché la maggior parte dei docenti, che non legge, al massimo affida tesi di laurea sugli autori visti la sera prima da Fabio Fazio o sulla terza pagina di Repubblica. Ma anche perché le facoltà umanistiche non hanno forza propulsiva, sono dei cimiteri senza uscita, ci si entra per morirci e basta. Negli Stati Uniti esistono le university press, da cui escono saggi e romanzi con una reale diffusione e autorevolezza, e ciò che si pensa di un autore negli atenei ha un certo peso anche fuori dagli atenei: nessuno scambierebbe le Cinquanta sfumature di grigio per L'arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon.
E poi ci stupiamo se lo Zibaldone di Leopardi è stato tradotto solo oggi (grazie al finanziamento di Silvio Berlusconi, lo ricordo ogni volta perché non lo ricorda nessuno, neppure i traduttori: sempre sia lodato, Silvio). Insomma, per quanto Harold Bloom si lamenti degli effetti devastanti del multiculturalismo e della perdita di una gerarchia di valori letterari, non conosce l'Italia, altrimenti scoprirebbe che l'America è in America.
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