Un’arte «divina» nata da un patto con il diavolo

Un’arte «divina» nata  da un patto  con il diavolo

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando un giovanotto di colore di bella presenza, armato di chitarra, grandi speranze e paure ataviche, sostava nei pressi di uno sperduto crocicchio di campagna e faceva un patto con il diavolo, novello Faust, in una zona già sufficientemente dimenticata da Dio perché ci fosse bisogno di stringere patti col demonio. Quell’uomo era Robert Johnson, colui che viene considerato il maestro del blues moderno. C’è chi dice che nel 1938, il ventisettenne Robert sia stato accoltellato o avvelenato, da una amante tradita o dal marito di una delle sue amanti. Quello di cui molti dei suoi successori sono convinti è che satana si sia preso il prezzo del patto che aveva stipulato con Johnson, un ragazzino prodigio del canto e della chitarra Blues, consentendogli tra l’altro di avere gioco facile con le sottane.
Donne, miseria, alcol e musica saranno i tratti tipici della vita del bluesman, parabola quasi universale di genio e sregolatezza di generazioni di musicisti che attraverseranno le piste del blues. E pensare che il giovane Johnson veniva irriso da musicisti più esperti di lui che passavano di quando in quando dalle lande desolate del sud natio e che lo consideravano poco più che un poppante privo di talento. Ma anche questo fa parte della parabola del blues: lavora duro, fatti venire le vesciche ai polpastrelli e la voce roca a forza di cantare a squarciagola in bettole di infimo ordine e, prima o poi, qualcuno ti sentirà e ti farà star meglio.
In fondo, il blues non è solo una forma musicale dalle caratteristiche stilistiche codificate, insomma è molto di più delle classiche dodici battute. Il blues è uno stato d’animo. Un certo Ray Charles, uno che non ci vedeva tanto bene ma che la sapeva lunga, diceva che solo un nero può «avere i blues», ovvero può sentire quella malinconia ancestrale che sa tanto di mal d’Africa, da cui il Blues prende le mosse. È pure vero che il bianchissimo Elvis Costello ribatteva che Ray doveva essere troppo cieco per vederci chiaro, ma quel che è certo è che se ancor oggi, soprattutto nel Mali, si possono rintracciare forme autoctone musicali che ci fanno supporre che i primi blues venissero proprio da lì, il blues come noi lo conosciamo non sarebbe stato quello che è se non ci fosse stata la questione della tratta degli schiavi. Il blues è figlio diretto della tristezza dei neri sottoposti a giornate di duro lavoro nei campi di cotone e spesso separati dalle proprie famiglie. D’altronde, le zone dell’America in cui il blues ha trovato un terreno fertile sono proprio quelle in cui si concentrava maggiormente la popolazione di colore. Una musica povera e scarna per una popolazione poverissima. Strumenti di fortuna, spesso autocostruiti, come chitarre ottenute da scatole di cartone e flauti scavati in stecche di bambù. Una musica ossessiva e lamentosa, ma anche gioiosa e ballereccia, comunque sempre in grado di trasmettere l’emozione del momento.
Qualche nome storico? Charlie Patton, Son House, Skip James, Mississippi John Hurt. Ma il Blues non si è forse inurbato, negli anni ’50, creando le premesse per l’esplosione del R&B, prima, e poi del Blues Revival tanto caro ai nipotini inglesi, ovvero a Rolling Stones, Yardbirds, John Mayall e Led Zeppelin, tanto per citarne qualcuno? Certo, a Chicago e Memphis, nonostante tutto, ci si spezza la schiena in fabbrica ma è una passeggiata rispetto al lavoro nei campi di cotone. Ecco, dunque, una nuova generazione di bluesmen elettrici come Muddy Waters, John Lee Hooker, B.B.

King e Howlin’ Wolf su cui faranno tanta palestra i vari Hendrix, Clapton, Stevie Ray Vaughan, Johnny Winter. Una palestra che non ha mai chiuso e che oggi ha fatto grandi personaggi come Ben Harper e Johnny Lang, non veri bluesmen ma, comunque, cresciuti a pane e Blues.

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