Cultura e Spettacoli

Capostipiti ed eredi

Capostipiti ed eredi

A mo tutte le città che attraverso, mi incantano tutti i luoghi che non assomigliano a quelli della mia infanzia. Arrivo in ciascuno di questi luoghi a cuor leggero, senza pensieri. Non si è migranti quando si esporta la propria essenza, i propri modi, costumi e gusti allo scopo di imporli nel paese che ci accoglie. Quando il luogo in cui viviamo si contrappone con tanta forza al nostro «ambiente naturale», è allora che riaffiora, all'improvviso, il «guardaroba» della nostra infanzia: i rumori delle nostre strade, le gioie e i dolori del nostro popolo. È durante i periodi di burrasca che ti accorgi della bellezza di un cielo azzurro, di un volo libero di uccelli o del fiorire di un'essenza di cui cerchi invano il nome finché, un bel giorno, non ti ricordi che cresceva dietro la casa di tuo padre o in un giardino pubblico del quartiere di Moungali, a Brazzaville. È nel deserto che ci si rende conto che l'oceano Atlantico e il fiume Congo sono una benedizione divina. Ma c'è sempre il rischio di considerare le pagine di un «emigrato» come zampilli della sua nostalgia. In realtà si può soffrire di mal di patria anche restando nella propria terra. Io non sono un nostalgico, io nutro nel mio intimo l'inquietudine, un'inquietudine costante al pensiero di dover lasciare un giorno questo mondo senza avere scoperto quel minuscolo particolare che ci lega…
Negli anni Ottanta abbiamo assistito alla «proliferazione» di una letteratura cosiddetta di migrazione, quella a cui Jacques Chevrier avrebbe dato in seguito il nome di «migritude». Opere come quelle dei miei colleghi Daniel Biyaoula (L'Impasse) o J.R. Essomba (Le Paradis du Nord) ci avrebbero svelato la vita quotidiana dell'africano scisso tra l'Africa e l'Europa. Al tempo stesso la questione dell'emigrazione si apprestava ad entrare nel cuore stesso delle politiche europee: l'immigrato cominciava a essere percepito come lo «straniero» per antonomasia, come colui che rispunta fuori per conquistare in modo fraudolento uno spazio che in passato aveva difeso per la gloria degli imperi coloniali…
Il fenomeno della «migritudine», tuttavia, non è nuovo: basta risalire per esempio a romanzieri come Bernard Dadié (Un nègre à Paris) o anche Camara Laye (L'Enfant noir). Si trattava allora, per il primo dei due, di fornirci uno schizzo dei costumi degli abitanti del Nord. L'immigrato tornava in patria per raccontare le sue avventure, più o meno sul modello delle Lettere persiane di Montesquieu. Lo animava la sete di scoprire l'universo del suo colonizzatore di un tempo. Per Camara Laye, anche se il suo viaggio viene rievocato soltanto nelle ultime pagine del romanzo, non si trattava solamente di celebrare la sua terra natale, ma anche di cercare altrove il senso da dare alla propria esistenza: l'Europa era la salvezza, il luogo di consacrazione attraverso il conseguimento di un titolo di studio. Un esperimento del genere poteva apparentarsi al suicidio, perché lo scontro tra due culture diverse spingeva il personaggio verso una forma di follia, come accade nel romanzo L'Aventure ambiguë di Cheikh Hamidou Kane…
La nostra generazione – quella emersa negli anni Novanta – ha certamente condiviso questa visione del mondo. Ma molti di noi avevano deciso di vivere altrove, mentre in altri casi non si trattava di una scelta ma di una costrizione le cui cause scatenanti non erano meno variegate del numero stesso dei migranti. Il ritorno all'ovile non era necessariamente previsto nell'agenda del migrante. Scoprivamo che la letteratura non aveva un unico paese di origine. Che l'emigrato aveva la nazionalità di chi lo leggeva. Con il moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione abbiamo dunque creato regioni nuove, nuove ramificazioni attraverso il mondo. «Roma non è più dentro Roma», e lo scrittore diventa allora quell'uccello migratore che si ricorda della sua terra lontana ma si sforza anche di cantare dal ramo dell'albero su cui è appollaiato. Questi canti di uccelli migratori appartengono ancora al corpo delle letterature nazionali? Non ne sono sicuro, non più di quanto sia convinto che la letteratura sia disposta ad accontentarsi di uno spazio dai contorni ben definiti. Abiterei qualsiasi luogo del mondo purché desse asilo alle mie fantasie e mi lasciasse reinventare il mio universo. Sono insieme uno scrittore e un uccello migratore.

Ecco perché il mondo è la mia casa.

traduzione dal francese di Giuseppe Girimonti Greco e Ezio Sinigaglia per conto di 66thand2nd

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