di Andrea Vitali
C aro Maestro Leonardo Sciascia, non ho altro mezzo per coprire la distanza che separa Bellano da Racalmuto se non ricorrere a una lettera, desueto tramite di comunicazione che però credo lei accetterà di buon grado.
Sinceramente le confesso che non ho mai creduto alla sua morte. Piuttosto mi sono convinto che lei si sia nascosto da qualche parte della sua splendida isola. Magari in un luogo remoto, irraggiungibile, dal clima temperato, e nell'aria gli echi degli eroi dell'antichità. E la vista sul mare infinito, quel mare colore del vino, rosso di sangue umano o animale o degli ultimi raggi del sole quando sembra annegare. La vedo distintamente: l'eleganza estiva, l'eterna sigaretta ancora spenta, lo sguardo appena corrucciato per via del sole, l'indice della mano destra che tiene il segno in un libro di cui mi piacerebbe individuare il titolo e l'autore, se il Candide di Voltaire o I saggi di Montaigne.
Amo vederla seduto su quella roccia che solo un occhio acuto ha individuato come sedile scolpito da una mano non umana, monumento destinato a mantenere viva la memoria, quella passata, quella presente, e quella futura memoria sulla quale baso l'incrollabile certezza che lei non sia scomparso ma piuttosto viva appartato. Se no, non sarei qui a scriverle. Sui motivi che l'hanno decisa, o costretta, a compiere un passo tanto definitivo ho più di una idea. Alcune sono vaghe, altre più precise e ve ne sono un paio che mi sembrano centrate al punto che, ripensandole, mi portano a sfiorare una peccaminosa vanità. Di queste, una è che al giorno d'oggi una composta voce di dissenso, una fonte di possibilità alternative al luogo comune o a ciò che comunemente si vorrebbe far passare per verità, sempre più difficilmente trova il tempo necessario e sufficiente per farsi ascoltare dall'inizio alla fine. Vince chi più grida, come al mercato, finanche il raglio d'asino trova una via per salire in cielo. Mentre gli anatomo patologi delle nostre azioni, con le loro minuziose relazioni che non rispettano il comandamento twitteriano dei 140 caratteri, ci vorrebbero distogliere dal tempo presente, invitandoci a riflettere su un passato da cui potremmo trarre insegnamenti per un futuro che ne trarrebbe giovamento.
Il giorno in cui riuscirò a scovare dove si è nascosto, caro Maestro, le sottoporrò una domanda che da tempo mi pizzica la lingua. Scriverebbe ancora L'affaire Moro? Avrebbe un senso farlo oggi? So che mi guarderebbe lungamente e accenderebbe finalmente la sigaretta per dare tempo a me, tra un tiro e l'altro, di dire: «Sì». Lo scriverebbe ancora e sarebbe ancora più utile di ieri, strumento, vocabolario per interpretare molto di ciò che accade ai nostri giorni. Non a caso ho citato quel libro, il primo della sua preziosa opera ad essermi capitato per mano. Si figuri che non era nemmeno mio. Fu un prestito, e come tale, com'è quasi sempre nel destino dei libri, non lo restituii mai più ed è ancora presente nella mia libreria. Fu una lettura golosa e confusa. Golosa perché il bisturi che risolveva le allusioni di Aldo Moro come fossero aderenze cicatriziali aveva l'incanto di una precisione inimitabile verso l'obbiettivo che si poneva. In altre parole, e qui gioca la confusione, parte integrante di quella prima lettura, pur non comprendendo appieno le parole dello statista e quelle del suo interprete, non mi sfuggì la pulizia del pensiero e l'altrettanta chiarezza di scrittura. Dal bisturi quindi la curiosità si mosse a voler scoprire quale fosse la mano che lo manovrava. Non erano tempi di vacche grasse per me. Lo fossero stati avrei fatto incetta dei titoli che già allora si offrivano dallo scaffale di una libreria. Si obietterà che avrei potuto fare vela verso qualche biblioteca: ma i libri, certi libri soprattutto, ho sempre amato acquistarli o farmeli regalare, comunque possederli.
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Giunsi anche ai romanzi, naturalmente. Vi arrivai con l'entusiasmo della raggiunta indipendenza economica, una libertà guadagnata con il primo mese di lavoro e subito perduta. Agli occhi di qualcuno il mio comportamento di allora di fronte alla prima mazzetta di lire, mercede per un onesto servizio notturno e festivo, potrà sembrare scriteriato. La cifra non era granché, pur se ai miei occhi di allora si rivelò portentosamente magica, in grado di soddisfare gran parte dei miei appetiti tanto che, dopo aver acquistato tutti i libri di cui avevo desiderio, un centinaio di titoli circa, restai male trovandomi in braghe di tela come prima, come sempre. Lo dico senza vergogna ma, per continuare il servizio per il quale ero stato assunto, dovetti ancora una volta ricorrere alle casse paterne: solo dopo avermi allungato i soldi per un po' di benzina mio padre mi chiese che fine avessero fatto quelli della mia prima busta paga e, una volta saputo che erano finiti tutti in libri, non ebbe assolutamente niente da dire.