Quel giorno di 70 anni fa, 8 settembre 1943, pesa ancora come un macigno sulla storia nazionale. «La guerra è finita, tutti a casa»: fu questo il significato attribuito alle parole lette alla radio da Badoglio: da quel momento non ci fu più un esercito italiano di soldati, ma di sbandati. Fu una catastrofe senza eguali nella storia del Paese.
Un grande scrittore e giurista, Salvatore Satta, vergò un amaro de profundis in cui il trauma dell'8 settembre era assimilato alla «morte della patria» e, implicitamente, a quella della nazione. E Renzo De Felice parlò dell'8 settembre 1943 come della «data simbolo del male italiano», una data che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo». E si aprì una discussione storiografica e politica che non è ancora esaurita.
Nella storia contemporanea italiana c'era stato un altro momento drammatico: la disfatta di Caporetto dell'ottobre 1917. Tuttavia, allora la sconfitta e i suoi effetti vennero riassorbiti dal Paese e dalla classe dirigente. Non a caso Gabriele d'Annunzio parlò di Caporetto come di una «vittoria morale». Nel caso dell'8 settembre ciò non fu possibile. E il motivo è abbastanza chiaro. Il fascismo aveva cercato di «nazionalizzare le masse» in maniera forzata e, per giungere a questo risultato, aveva rotto il binomio nazione-libertà (binomio che era tratto distintivo della «rivoluzione delle nazionalità» in Europa e, per l'Italia, del processo risorgimentale) e aveva identificato se stesso con il nazionalismo.
La sua fine catastrofica aveva trascinato con sé l'idea stessa di nazione, condannandola a una sorta di damnatio memoriae tanto che, per molto tempo, il termine stesso di «nazione» scomparve dal lessico politico, surrogato - ma a fatica e grazie solo a Benedetto Croce - da quello di «patria».
Insomma, l'8 settembre mise in luce la debolezza etico-politica del Paese. Quella data segnò davvero la «fine della nazione» come valore unificante. Ma, al tempo stesso, esso implicò anche un timido avvio di un processo di «rinascita della nazione». Perché mentre gran parte dell'esercito si dissolveva come neve al sole, molti militari internati nei campi di concentramento rifiutarono di collaborare con i tedeschi mantenendo fede al giuramento al Re, e altri ancora non si lasciarono sopraffare dal panico e dalla confusione che regnavano dappertutto. E, ancora, fra quanti, civili ed ex militari, decisero di impegnarsi nella lotta clandestina ve ne furono tantissimi, di provenienza diversa, cattolici e monarchici e liberali in prima fila, decisi a lottare per la costruzione di una Italia nuova, moderna e democratica, patriottica e nazionale, non succube del progetto togliattiano basato sull'idea di una «democrazia progressiva» con l'occhio e il cuore rivolti al comunismo internazionale e internazionalista.
Peraltro, il processo di recupero di una coscienza nazionale fu lungo e faticoso. E, forse, non si è ancora del tutto concluso. La costruzione della nuova Italia, libera e democratica, venne condizionata dal prevalere di una cultura politica basata sul presupposto di una «unità della Resistenza» a guida comunista, ma anche sulla falsa alternativa fascismo-antifascismo. Una cultura politica che finì per influenzare, troppo, il processo di formazione della Costituzione, conferendole quei connotati ideologici e quel carattere di compromesso che la rendono obsoleta.
A 70 anni di distanza dalla drammatica giornata dell'8 settembre 1943 è ora di ripensare, mentre nuove macerie si stanno abbattendo sul
Paese, la nostra storia e, soprattutto, chiudere il capitolo di una lunga, sotterranea, ininterrotta «guerra civile» che ha segnato questi decenni e impedito di imboccare la strada di una piena riconciliazione nazionale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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