Che gran cronista quel santo bevitore di Joseph Roth

Nei pezzi giornalistici il romanziere coniuga sempre l'osservazione del presente e la nostalgia del passato

Che gran cronista quel santo bevitore di Joseph Roth

«Senza alcol sarei divenuto probabilmente un giornalista abbastanza bravo. Tutte le buone trovate mi vengono dal bere. Se vuoi t'indico nei miei romanzi ciascun passo ben riuscito che devo a un buon calvados». Scrivendo al vecchio amico Soma Morgenstern, Joseph Roth (1894-1939) dice una grande mezza verità: in calvados veritas... Nel senso che anche se messo sotto spirito, anche il suo spirito giornalistico, oltre a quello letterario, diede eccellenti prove. Quel poco che visse, 45 anni, lo visse infatti con l'occhio del cronista ben vigile oltre il fondo del bicchiere. Del resto era, come il suo Andreas Kartak, il santo bevitore, nume tutelare dei lucidi sbevazzatori d'ogni tempo e paese, «un uomo d'onore, anche se senza indirizzo», e le pagine vergate sui tavolini traballanti dei bistrot, seconda patria dell'esule, ne sono imperitura testimonianza.

Ma le cronache di Roth, i suoi bozzetti, i suoi pezzi di costume, i suoi elzeviri ad alta gradazione, hanno questo di bello: che prendono i fatti sotto braccio, proprio come i suoi compagni occasionali prendevano lui, sotto braccio, per portarlo finalmente a casa (casa? Quale casa? Nella camera d'albergo di turno, piuttosto), e la conducono a ritroso, nel passato della nostalgia, dei ricordi seppiati d'epoca imperialregia. Capitati non per caso fra le mani gentili e competenti di Claudia Ciardi, otto di questi acquerelli finora inediti in italiano in cui l'osservazione fa da pendant alla rievocazione compongono ora un volumetto edito da Via del Vento, L'incantatore e altre prose (pagg. 33, euro 4, traduzioni della stessa Ciardi e di Katharina Majer).

Il sistema binario rothiano ne emerge in fulgida chiarezza. In Vecchie e nuove fotografie (settembre '29) l'antico «ovale delicato, la più coinvolgente e universale forma geometrica, la forma della terra, delle uova e del volto umano», sottoposto alle alchimie della tecnica viene soppiantato da immagini in cui il «profilo» prende il posto del «volto»: «Gli indifferenti divengono riflessivi; le personalità tranquille si trasformano in gioviali; i semplici in determinati; comuni passeggiatori sembrano piloti; segretari dèmoni; direttori Césari». In I manichini la «fantasia erotizzata» dei modelli asettici si sfarina a petto del «realismo dell'industria di abbigliamento, dell'igiene e dei parrucchieri»: al sogno si sostituisce insomma la realtà, terza e dittatoriale dimensione (e la suggestione finale della nitroglicerina utile per fabbricare tanto al nylon delle calze femminili quanto ai gas letali d'uso militare rimanda, suggerisce Claudia Ciardi, alla battuta del losco figuro Nikolaj Brandeis del coevo - 1929 - Destra e sinistra, che ai giorni nostri potrebbe essere un oligarca ex-sovietico...). Quanto a quelli che oggi, scrive Roth nel '30, si chiamano «prestigiatori», allora si dicevano più propriamente «incantatori».

E se il piccolo Joseph li aspettava trepidante da un anno all'altro, per rivivere la tenera magia di un inganno, il vecchio Joseph non li aspetta più. Butta giù l'ultimo sorso e dice: «sono pure divenuto scettico».

Lo scetticismo è la principale qualità del buon giornalista. E dei grandi scrittori come Joseph Roth.

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