Cultura e Spettacoli

"Combatto con la realtà per coglierne l'essenza"

Nell'ultimo saggio, lo scrittore spiega le sue idee sulla letteratura. "La scommessa è prendere una storia “vera” e renderla universale"

"Combatto con la realtà per coglierne l'essenza"

E ssere intellettuali è ormai poca cosa. Se sei un intellettuale coraggioso, però, capita che qualcuno ti elegga «mio capitano». Walter Siti, ultimo Intellettuale di una razza estinta, Curatore delle opere di Pasolini, Inventore dell'autofiction e suo primo abbandonatore, diventa in questi giorni direttore di Granta Italia, la rivista letteraria su cui ha scritto coraggiosamente che un libro sulle torture in Argentina lo eccitò sessualmente (e se ne vergogna) e che Le Benevole è un libro deludente. E lo Scrittore Walter Siti, con un romanzo coraggioso come Resistere non serve a niente (Rizzoli), ritratto di un mediano della finanza e dei meccanismi globali del giro di denaro, si candida in questi giorni al prossimo Premio Strega, pronto alla coraggiosa sfida con lo Scrittore Aldo Busi. E sempre Walter Siti è in libreria da ieri con Il realismo è l'impossibile (nottetempo, pagg. 80, euro 6), un libretto smilzo che definisce «bieca ammissione di poetica», infarcita di citazioni da Ovidio a Hofmannsthal a Woody Allen, in cui conduce al punto estremo un discorso sul realismo in letteratura cominciato nel 1973. Più coraggio di così.

Che cosa si aspetta dallo Strega?

«Di andare bene».

Nessuna paura di essere tirato dentro alle polemiche sul premio da cui Pasolini si ritirò «in nome della cultura» e contro «complicità e compromesso»?

«Cercherò di starne fuori, se ne avrò la forza. Si tratta di un editore che presenta un libro e se ha abbastanza voti va avanti. Tutto qui. Ho 66 anni, che cosa vuole che stia ad appassionarmi a queste cose».

E che cosa dobbiamo aspettarci da lei come direttore di Granta?

«Spero che diventi piano piano una rivista dove scrive la gente che sa scrivere. Non ho particolari intenti tematici, ma di scelta delle persone, che spero possano diventare collaboratori su cui contare. E, come nel Granta inglese, non vorrei pubblicare soltanto racconti, ma anche saggi e poesie. Allargare la latitudine di forme».

La scelta delle persone come va?

«Il panorama è ricco. Ci sono scrittori molto buoni in italia in questo periodo. Al momento ho coinvolto sia Michele Mari che Antonio Moresco. Se riuscissi a mettere insieme un gruppo di quel livello...».

I nomi che ha citato non sono proprio di scrittori di ultima generazione.

«La letteratura non dipende dall'anagrafe. Non mi interessano né l'età né se sono uomini o donne».

Ma i giovani scrittori quanta contezza hanno della letteratura?

«Molta rispetto a come si scrive, ai marchingegni artigianali per ottenere un buon racconto, grazie anche alle scuole di scrittura. Così scrivono per scrivere o mostrare quanto sono bravi. Ma la consapevolezza della necessità di scrivere, la riflessione “politica” sulla letteratura che facevano Calvino o Pasolini, è del tutto carente».

Per la letteratura è un buon momento?

«Senz'altro meglio degli anni 70 e 80. La letteratura si era chiusa in un esercizio autocritico che diventava sterile: prima con la neoavanguardia poi con il postmoderno, come se dovesse fare i conti con sua stessa struttura. Alla lunga un esercizio noioso. Adesso si è rimessa a parlare della vita. Penso a Roth, Houellebecq, Michele Mari, Easton Ellis».

Riesce a riassumerci la «bieca ammissione» della sua poetica «realista»?

«Mi interessa la letteratura che fa a pugni con la realtà, che la sfida e la tiene presente. Non mi interessa se parla di se stessa o produce quei libri che quando chiedi in che lingua sono scritti rispondono: “Nella lingua della letteratura”. Perché non so cosa sia e non so cosa farmene. Mi interessano poco le scritture totalmente fantasiose, con maghi e streghe, così come quelle unicamente storiografiche, che ricalcano la realtà facendone una copia. Mi interessa la linea del fuoco, per cui la realtà è il punto di partenza per saltare da un'altra parte e giudica se l'energia di un testo è sufficiente per tenere botta rispetto all'energia che essa stessa manifesta».

E quindi il suo modello di realismo letterario qual è?

«Dante Alighieri. Un caso di egocentrismo furibondo, da una parte “unto del Signore” al limite della nevrastenia - si supponeva che soffrisse di crisi epilettiche - dall'altra impregnato di erudizione al punto da capire, nel XXXIII canto del Paradiso, il segreto della divinità. Anche se poi non ce lo sa spiegare tanto bene. Lo so che è una follia, prendere a modello Dante. Ma, come diceva Woody Allen a proposito di Dio, bisogna pur avere dei modelli e più alti sono meglio è».

Una miscela di alto e basso: quanto di più lontano dal «canone» di Harold Bloom.

«Non credo nella letteratura ieratica, gli errori non mi dispiacciono. Spesso gli autori che amo di più, Proust Dostojevskij, Dante, sbagliano. Prenda il V canto dell'Inferno, quello di Paolo e Francesca: i versi sono pieni di zeppe. Si vede che non sapeva ancora fare bene le terzine».

Ma il suo realismo che parentela ha con le storie vere o con la docufiction contemporanea alla Saviano?

«La grande scommesa è quella dell'esemplarità. Non bisogna perdersi nei dettagli, né cadere in stereotipi, come fanno a volte le fiction televisive. Anche a partire da un'autofiction molto auto e poco fiction, cioè mettendoci la propria biografia o di quella di un Paese o di un periodo storico. Perché finché rimane soltanto quello, rischia di essere un po' asfittica e non decollare come letteratura. Il miracolo succede quando sotto quella roba lì c'è qualcosa che ha durata più lunga: il mito, l'archetipo. L'esempio migliore è Una questione privata di Fenoglio.

Gomorra vale più per i momenti francamente visionari come i cinesi congelati che per la documentazione realistica della camorra nel casertano».

Commenti