di Angelo Crespi
Vent'anni fa la cultura di destra usciva dalle «fogne» in cui era stata marginalizzata e quella liberale trovava, dopo la caduta del Muro, nuovo spazio anche in Italia. Il nascente Centrodestra rappresentò politicamente il fermento di uomini e idee che si opponevano, da un quarantennio, al cosiddetto progetto gramsciano secondo cui il possesso degli strumenti culturali avrebbe condotto la sinistra al potere: un vasto e complesso territorio dove convivevano tradizioni socialiste, cattoliche, libertarie, radicali. Di quel momento di euforia incarnato da fondazioni, luoghi di elaborazione, riviste (Ideazione, Liberal, Futuro Presente, Il Domenicale...), blog e aggregatori on line, non resta nulla. Anche le case editrici più impegnate (Rubbettino, Liberilibri, Ares...) hanno mantenuto un prestigio minoritario. Nel frattempo, scomparsi i grandi interpreti, l'egemonia culturale di sinistra vive di epigoni che ripetono il mantra della superiorità morale e propendono per un bolso conservatorismo imbellettato da tensioni antiborghesi seppur ancora sfinitamente radicalchic: una pletora di registi, attori, cantanti, giornalisti e una burocrazia stolida, in grado di cambiare pelle per non modificare lo status quo e non perdere il proprio residuale potere. Ciò non significa che la cultura sia inutile: in un momento di rilancio del Paese, il patrimonio artistico, non solo per la sua connaturata dimensione simbolica e identitaria, ma per le possibilità di essere motore dello sviluppo economico, sarebbe un tema strategico sia per ottenere consenso sia per fondare nuove politiche. Basti pensare che la filiera cultura contribuisce al Pil per 76miliardi e all'occupazione per il 5,4% del totale. Mentre la Sinistra sui beni culturali si divide fra modelli quasi reazionari (pensiamo alle posizioni di Salvatore Settis, per il quale ogni apertura ai privati viene vista come un attentato alla Costituzione) e modelli market oriented, il Centrodestra tace.
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