di Daniele Abbiati
I poeti, con l'economia, hanno sempre fatto i conti. Non per piacere, ma per dovere, per sbarcare il lunario, visto che la loro arte non è mai stata (e continua a non essere - per fortuna, aggiungiamo) fra quelle più remunerative. E gli economisti, invece, come son messi nei confronti della poesia? In altri termini, se la poesia fa economia, cioè tira la cinghia, l'economia può fare poesia, cioè diventare poiesis, atto creativo? Fra le righe, ce lo si chiederà anche al Festivaletteratura di Mantova, dove i poeti saranno tanti, e gli economisti pure. «Siamo diventati tutti esperti economisti?» è la domanda che si pone l'homepage dell'apposito sito. Fra uno spread e una spendig review, un pension funds e un'agenzia di rating, può spuntare, oltre che la voglia di capire di che cosa si sta parlando, quella di narrarlo, di metterlo a tema come oggetto (e soggetto) letterario? Forse è ancora troppo presto. Forse il parlare economico equivale ancora a bestemmiare la parola poetica, a nominare invano il nome dei sentimenti e delle miserie umane. Ma il fatto che ad aprire le danze sarà, oggi, il poeta Seamus Heaney, e a chiuderle sarà Edgar Morin, un grande vecchio che non disdegna le incursioni nel futuro che sarà (se ci sarà) sempre più economico quanto a redistribuzione del dare e dell'avere, significa già qualcosa. Nel mondo di oggi la poesia è chiamata a prosaicizzarsi, con occhi meno «ridenti e fuggitivi», ma, per contro, l'economia è tenuta a svestire i panni della «scienza triste» per non farsi odiare. Sono entrambi compiti gravosi.
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