di Giuseppe De Bellis
Su John Fitzgerald Kennedy ci sono certezze scritte sul ghiaccio. Definirlo politicamente è impossibile. La mitologia ha schiacciato la realtà tanto che non sapremo mai che cosa è stata la presidenza Kennedy. Che ha fatto? Come l'ha fatto? Che conseguenze ha avuto? Sono domande che non hanno risposta perché qualunque cosa si dica o si scriva viene distrutto dalla leggenda. È la morte che sconfigge la vita. È la morte che porta con sé commenti, analisi, giudizi per lasciare il posto al racconto e all'emozione. Cinquant'anni non bastano. Jill Abramson, direttrice del New York Times, ha provato in questi giorni a scavalcare il mito per approfondire la portata politica dei due anni e mezzo della sua amministrazione. Il titolo del suo monumentale articolo svela il finale della storia: The elusive president. Inafferrabile in vita e inafferrabile nella morte. Come se fosse impossibile esprimere un giudizio compiuto perché non si devono prendere a calci i miti. Come ha detto Robert Dallek, uno dei più importanti biografi di Kennedy, «il pubblico di massa ha trasformato Jfk in una celebrità e così gli storici non hanno avuto interesse ad approfondire ciò che ha fatto». È un paradosso, certo: la popolarità avrebbe dovuto spingere a indagare di più, il problema è che qualche storico aveva interesse a imbarcarsi in un'avventura che magari avrebbe prodotto una critica a Jfk? Con tutto il mondo che l'ha messo per mezzo secolo su un piedistallo, nessuno ne ha avuto davvero il coraggio.
Così oggi sappiamo tutto della vita privata, degli amori, delle scappatelle, delle manie, delle malattie, non sappiamo molto di che cosa pensasse dell'America e di dove avrebbe portato il suo Paese. Certo sappiamo della Baia dei porci, della successiva crisi missilistica, della guerra in Vietnam. Ma non c'è un giudizio vero, un giudizio sincero perché tutto è piegato dalla popolarità a prescindere di Kennedy. Scrive Abramson: in cinquant'anni sono stati scritti 40mila libri su di lui, ma nessuno veramente da ricordare.
Il che è forse il primo vero giudizio. Il fatto che arrivi dal New York Times rende la cosa interessante. Perché forse è l'inizio di un «revisionismo» kennediano, un tentativo di smontare il mito per provare a capire se con gli stessi pezzi si possa costruire qualcosa sgombro dal fanatismo e dal ritornello che accompagna qualunque riflessione su Jfk: «Se non l'avessero ucciso». Si ipotizza che l'America sarebbe cambiata, che la guerra in Vietnam sarebbe finita, che la società si sarebbe evoluta, che il muro di Berlino sarebbe caduto prima. È la speranza e l'illusione della sinistra globale che ha preso Kennedy e l'ha fatto suo attribuendogli capacità che fino all'omicidio di Dallas del 22 novembre 1963, in realtà non s'erano viste. Ciò che si era visto, invece, erano scelte che con la sinistra a dirla tutta poco c'entravano: tagli alle tasse, aumento delle spese militari. In una recente intervista alla Stampa, il neoconservatore Norman Podhoretz ha detto che oggi sarebbe considerato uno di destra. Non c'è solo questo: si può dire, per esempio, che una delle cifre della sua amministrazione è stata l'inesperienza. Si può dire che in un mondo bipolare, lui fu inizialmente distrutto da Kruscev.
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