il commento 2 Se non si investe in cultura non c'è speranza di crescita

di Bruno Arpaia e Pietro Greco
Per fortuna in Italia c'è ancora qualcuno che vuole discutere partendo dalle idee e dalle necessità del Paese. Benvenuto, dunque, questo dibattito. Che però parte, secondo noi, scontando una forte contraddizione. Prima ci si chiede, infatti, con toni giustamente preoccupati, perché nessun politico si occupi della cultura, e poi si sostiene che lo Stato è parte del problema e che non deve immischiarsi in queste faccende per «lasciar fare» al dio Mercato. Ci risiamo. Il liberismo come ideologia. «L'apparato pubblico è conservatore per definizione», ha scritto Filippo Cavazzoni. Ma chi l'ha detto? Ne La cultura si mangia!, pensiamo di avere dimostrato, in maniera pragmatica e non ideologica, che le grandi riconversioni produttive, le innovazioni radicali, i cambiamenti più profondi sono storicamente venuti proprio dal massiccio intervento dello Stato in cultura, formazione e ricerca. Per esempio, è stato grazie al New Deal e alla decisione di accettare la scommessa di Vannevar Bush di puntare sulla conoscenza e sulla ricerca che gli Stati Uniti hanno assunto il ruolo di leader mondiale che ancora mantengono. E oggi? Il discorso non cambia: gli Usa stanno uscendo dalla crisi perché lo Stato ha investito massicciamente; e Angela Merkel, la rigorista Angela Merkel, ha sì tagliato la spesa pubblica tedesca di 80 miliardi in tre anni, ma ha aumentato di 13 miliardi gli stanziamenti per cultura, formazione e ricerca. Insomma, destra e sinistra non c'entrano: in tutto il mondo, i politici un po' più accorti sanno che nella cultura c'è il futuro (anche) dell'economia, che la conoscenza è e sarà sempre di più la sola scommessa possibile per l'avvenire e l'unica arma che possiamo brandire sullo scacchiere mondiale. È solo dopo queste precisazioni, perciò, che la questione posta da Nannipieri acquista un senso: libri, appelli, mobilitazioni sembrano condannati all'irrilevanza, a un «fiacco “dover essere” che rimane sui libri». Impossibile negarlo: è vero. E lo stiamo vedendo anche in questi giorni. Ma non bisogna stancarsi di ripetere che soltanto in Italia la cultura, la formazione e la ricerca hanno subito tagli così ingenti, proprio quando, a parere nostro, sarebbe stato opportuno fare il contrario. Perché? Fatte le dovute eccezioni, noi pensiamo che la nostra sia una classe politica e dirigente di bassa lega, priva di cultura e, dunque, incapace di innovare e di allungare lo sguardo oltre le prossime elezioni amministrative ad Afragola o a Carugate. E infatti, come documentiamo nel libro, a chi chiedeva attenzione alla cultura, soprattutto in questi tempi di crisi, i politici italiani hanno risposto in due modi diversi ma complementari: o affermando che «con la cultura non si mangia», oppure con l'idea che la cultura sia un lusso a cui, proprio per la crisi, dobbiamo rinunciare. Niente di più sbagliato. Se vogliamo mangiare dobbiamo fare come gli altri: fondare la nostra economia sulla conoscenza. E per farlo, dobbiamo cambiare la specializzazione produttiva del sistema paese. Perciò, il problema del vuoto in cui cadono le proposte di chi si occupa di cultura è parte del problema più generale dell'Italia: quello di un cambiamento di classe dirigente e di indirizzo politico che non può più essere rimandato. Finché in Italia dominerà l'ideologismo dello Stato debole non ne usciremo. E non serve accusare gratuitamente i produttori di cultura di voler «vivere sulle spalle degli altri», mentre li si dovrebbe considerare la spina dorsale della nazione.

Poniamoci invece il problema di costruire uno Stato lucido ed efficiente, per il quale la cultura sia davvero un bene comune, su cui bisogna puntare per creare un «habitat dell'innovazione» che renda possibile, anche e soprattutto ai privati, operare in libertà.

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