Cultura e Spettacoli

Cultura

Se è vero che il dono più grande di un giornalista è la capacità di sintesi unita a quella di analisi, Alberto Ronchey fu un vero maestro. Con una parola o una formula era capace di spiegare un mondo, di «titolare» un’epoca. Lo fece quando, ispirato dal boom immobiliare, per primo usò il termine «lottizzazione» per descrivere la spartizione degli incarichi in un ente, in specie nella Rai, in base all’appartenenza politica piuttosto che alle capacità professionali. E lo fece quando coniando il «fattore K» colse nel segno la «questione comunista» che era in quel momento al centro della vita politica italiana. Espressioni destinate a entrare non solo nella storia del giornalismo e della politica, ma nel lessico comune, persino nei vocabolari. Privilegio delle «grandi firme».
Come disse una volta Montanelli, «noi dobbiamo a Ronchey alcuni dei migliori saggi apparsi negli ultimi trenta o quarant’anni nella carta stampata, non solo italiana, di politica, economia, sociologia (quella vera): frutto di lunghi soggiorni in tutti i paesi d’Europa, in America, in Cina, in Giappone, d’indagini da 007 nelle loro viscere, di attente e vaste letture». E infatti Ronchey, che fu inviato della Stampa di cui divenne poi direttore e in seguito editorialista del Corriere e di Repubblica, fu maestro di un giornalismo capace di raccontare il mondo grazie all’osservazione diretta, dal vivo, di uomini e paesi. E se glielo riconobbe uno come Montanelli...
Ronchey fu giornalista di grande talento, scrittore prolifico (oltre venti libri), ministro... Di sé ci lascia molto, ma è indubbio che il suo nome rimane per molti legato in maniera indissolubile alla celebre formula «comunista». Era il 30 marzo 1979 quando il Corriere della sera pubblicò l’editoriale «La sinistra e il fattore K». Il triennio dell’appoggio di Berlinguer ai governi Andreotti si era concluso il 31 gennaio e quella mattina, alla vigilia delle elezioni politiche, si apriva il XV congresso del Pci. Ronchey con la sua formula s’ispirava al «fattore Q» che secondo la Morfologia della favola di Vladimir Propp indica il fattore della proibizione. Con «K» per Kommunizm in lingua russa Ronchey indicava quindi la ragione dell’impedimento al ricambio di governo in Italia in quanto un potente partito comunista prevaleva su ogni altra opposizione. In quegli anni Settanta tra «compromesso storico», «riprovazione» dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia e «eurocomunismo», il Pci aveva assunto un volto nuovo e il fatto che il partito di Berlinguer non potesse essere pienamente forza di governo poteva apparire come frutto di un «di più» che gli veniva addossato e contestato: si trattava dell’appartenenza al «mondo comunista» da cui Berlinguer sembrava aver preso le distanze (tanto che Ugo La Malfa ne aveva sollecitato l’ingresso nel governo).
Se l’Unità reagì stizzita contestando a Ronchey che il «K» era in realtà una «C» iniziale non tanto di «comunismo» ma di «cambiamento», Berlinguer nella relazione congressuale usò l’editoriale in termini vittimistici per lamentare una ingiusta e pregiudiziale «preclusione nei confronti del Pci per la partecipazione al governo». Ma il «fattore K» era una discriminazione da parte degli avversari o una «scelta di vita» dei comunisti? Nel 1979 il Pci fu buttato fuori dalla maggioranza o ne uscì di propria iniziativa? Se guardiamo alla concatenazione dei fatti vediamo che all’epoca né la Dc guidata dalla sinistra con Zaccagnini segretario né il Psi di Craxi, che aveva ancora la sinistra lombardiana in maggioranza, erano in grado di «discriminare» il Pci. Fu invece Berlinguer a decidere l’uscita dalla maggioranza. Berlinguer gettò la spugna schierandosi contro l’ingresso nel processo di unificazione monetaria europea e contestando l’installazione degli euromissili Nato in funzione anti SS20 sovietici puntati sull’Europa. La «diversità» del Pci non era all’epoca una questione morale ma una scelta di campo classista e internazionalista. Proprio Ronchey nel gennaio 1980 rilevava che era scoppiata una «seconda guerra fredda». Il «fattore K» non fu quindi una conventio ad excludendum di cui i comunisti furono soggetti passivi, ma una posizione politica che rispecchiava il loro voler essere «un mondo a parte» nella società italiana. Iniziò così una fase calante segnata dalla prima grave sconfitta elettorale registrata alle Botteghe Oscure dopo il ’48 con la perdita di un milione e mezzo di voti nelle elezioni del giugno 1979. Da allora per il Pci fu una caduta libera. Ronchey sarebbe poi tornato sulla tesi del 1979 il 12 maggio 2006, all’indomani della elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, con osservazioni ancora suggestive: «Il “K” è decaduto poi a causa di eventi come l’implosione del muro di Berlino, la dissoluzione dell’Urss e la svolta del Pci convertito in Pds e Ds al prezzo di alcune scissioni. Ma rimane sospesa quella domanda, sollevata già sul Corriere. Perché i postcomunisti non hanno ancora proposto, in elezioni a suffragio universale, un loro candidato alla guida del governo? Già tre volte hanno preferito altri candidati. Si deve dunque intendere che tuttora è difficile, o impossibile, coalizzare sotto la guida di un loro candidato sufficienti forze d’altri partiti. Di fatto, nell’elettorato persiste una considerevole diffidenza come residuo “fattore di proibizione”, che i postcomunisti prima o poi dovranno superare con plausibili e adeguate scelte politiche».
Proverbiale per la precisione con la quale curava ogni riferimento, ma anche per l’inventiva, Ronchey nella sua lunga carriera raccontò l’Urss di Kruscev «superpotenza sottosviluppata», Berlino appena divisa dal muro, Cipro sconvolta dalla guerra fra greci e turchi, l’America di Kennedy, l’India, il Giappone. Critico inflessibile della classe politica, non esitò a mettersi in gioco come ministro dei Beni culturali, con i governi Amato e Ciampi.

E l’unanimità del cordoglio espresso ieri dal mondo politico - dal presidente della Camera Fini agli ex ministri Veltroni e Melandri - testimonia la sua indipendenza di giudizio, di pensiero e di scrittura.

Commenti