Cultura e Spettacoli

Ecco qual era il vero sogno di Dante

Hans Kelsen ne "La teoria dello Stato in Dante" ha presentato la grande e profonda utopia politica del Sommo Poeta, fautore di un impero universale basato su radici cristiane

Il Dante politico: così sognava l'Impero universale

Dante Alighieri è stato uno dei grandi protagonisti della letteratura mondiale di ogni tempo e può essere definito, sotto il profilo culturale, il "padre" dell'Italia moderna. Ma la figura del poeta fiorentino trascende la pur fondamentale dimensione nazionale e, a ben guardare, anche quella letteraria: Dante è stato nei secoli celebrato come uomo dotato di profondo spirito teologico, perfino da Papi come Benedetto XV, Paolo VI, Benedetto XVI, come icona dell'esule in cerca di patria, come pensatore profetico e anche come teorico politico,

E proprio su quest'ultimo fronte si può cogliere nella sua interezza la pulsione di Dante all'universalità, studiata con attenzione da uno dei massimi teorici del diritto del Novecento, Hans Kelsen, che proprio con La teoria dello Stato in Dante, pubblicato nel 1905 per la prima volta, mostrò le sue doti di studioso in grado di unire il mondo giuridico a un'ampia gamma di discipline.

Kelsen, che al momento dell'uscita del suo saggio monografico aveva solo 24 anni, nel saggio rilegge il De Monarchia di Dante e la sua articolata visione di una teologia politica posta a fondamento di un governo globale del mondo nel cui cielo due soli, l'Impero universale e la Chiesa, avrebbero dovuto, nella visione proposta dal Sommo Poeta, splendere.

L'universalità è per Dante la soluzione ai problemi di frammentazione politica dell'Europa dei suoi tempi, un principio regolatore che permetta l'ascesa di un principe, l'imperatore, come ordinatore della necessità di coesione del continente in nome della via maestra dell'unità nel nome dell'ecumenismo cattolico. Quello di Dante studiato da Kelsen è un impero più "Sacro" che "Romano", il frutto di quella che lo studioso austriaco nato a Praga identifica come una lex divina che il figlio di una Firenze divisa, vittima personale degli scismi interni alla stessa fazione guelfa interna al Comune, identificava come inevitabilmente rivolta alla creazione di una monarchia universale. Kelsen nota che in Dante "il supremo principio ordinatore è il piricipium unitatis. L’unità è nello stesso tempo il bene, in tutte le cose è meglio cià che ha in sé più unità. L’esistenza dell’unità è la radice dell’esistenza del bene. La molteplicità è invece il male, l’esistenza della molteplicità è la sorgente dell’esistenza del male". E l'ordine collettivo garantito in terra dall'Impero è ritenuto la migliore delle società possibili in cui i singoli individui possono costruire la loro personale strada verso l'ordine celeste propiziato dalla bontà divina.

In quest'ottica Dante è pienamente figlio del suo tempo. Profondamente e intimamente cristiano, schierato nelle lotte politiche che coinvolgevano l'Italia dell'epoca, Dante leggeva con critica lucidità il paradosso di una Penisola intenta ad essere, decennio dopo decennio, sempre più ricca, opulenta e carica di potenzialità rispetto al resto d'Europa ma, proprio per questa fattispecie, anche e soprattutto sempre più vittima di appetiti incrociati da parte dei sovrani stranieri a cui il Sommo Poeta sperava l'intervento di un imperatore avrebbe posto rimedio.

E Kelsen osserva con gli occhi del giurista la tensione intrinseca nel suo pensiero politico, sottolineando all'interno dell'opera letteraria di Dante la presenza di una volontà ordinatrice desiderosa di creare non solo le fondamenta ideologiche, politiche e culturali per la sua visione di impero cattolico e universale ma anche le fonti del diritto in grado di governarlo. Un imperatore con potere diretto sui sudditi, legittimato dalla presenza di un contropotere pastorale ed ecumenico, non divinizzato e in grado di avere l'ordine come Stella polare della sua azione era, secondo Kelsen, la figura cui Dante pensava, probabilmente avendo nella mente la possibilità di una riproposizione dell'epopea di Federico II, scomparso pochi anni prima della sua nascita.

Settecento anni dopo, non possiamo non sottolineare la profonda complessità dell'universalismo dantesco e la grande profondità teologica e politica del pensiero del poeta fiorentino, che invano tentava di resistere alla disgregazione dell'Italia e dell'Europa opponendo principi ordinatori e regolatori che, nell'epoca della nascita degli Stati nazionali, apparivano superati ma che dimostravano la volontà di opporre una resistenza al disordine crescente a livello sistemico. E la complessità dell'universalismo dantesco è altamente maggiore di quella dei presenti esempi di dottrine politiche desiderosi di farsi palingenetiche dividendo nettamente tra amici e nemici, tra "Noi" e "Loro", tra sommersi e salvati, tra cittadini titolari di diritti e scarti da emarginare. I regimi totalitari del Novecento e il neoliberismo, con i loro universalismi fondati su concetti semplicistici e fallaci, mirano a dividere l'umanità distruggendone le radici. Quello di Dante, in potenza, tendeva guardando a un universo eurocentrico a unirli puntando su un principio chiave di matrice religiosa e un'istituzione secolare.

Rappresentando la più grande utopia dell'opera del Sommo Poeta.

La teoria dello Stato in Dante

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