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Il dialogo atei-credenti? Un'amichevole ipocrisia

L'incontro sul terreno comune del pensiero è positivo. Ma spesso nasconde le rispettive posizioni. Che (al di là del buonismo) sono sempre agli antipodi

Il dialogo atei-credenti? Un'amichevole ipocrisia

Dopo una lunga afasia è tornata sulle bocche degli intellettuali e dei sacerdoti la parola chiave che scaturì dal Concilio Vaticano II: dialogo. Papa Francesco che dialoga con Eugenio Scalfari, in precedenza il dialogo tra il cardinal Martini e il filosofo della scienza Giulio Giorello, poi quello di Ratzinger col matematico Piergiorgio Odifreddi, il cortile dei gentili e dei giornalisti del cardinal Ravasi, la svolta teologica de la Repubblica che da un mese ha almeno un editoriale al giorno sul tema religioso.

Chiesa del dialogo si chiamò quarant'anni fa l'apertura di alcuni preti, vescovi e teologi agli atei e ai credenti di altre fedi. E il dialogo teologico fu il prologo in cielo del dialogo politico che si aprì tra cattolici, laici e comunisti negli anni Settanta. Col paradosso ancora attuale, notato allora da Augusto del Noce, che i cattolici progressisti dialogano con i progressisti non cattolici ma non con i cattolici non progressisti. Ovvero il progressismo è il punto fermo e la fede cattolica la variabile subordinata. Prima che Berlinguer lanciasse il compromesso storico, le intese politiche tra cattolici e sinistra furono infatti chiamate patti conciliari. Quel dialogo si richiamò a una terna di patroni: Papa Giovanni XXIII, John F. Kennedy e il comunista post-staliniano Nikita Cruschev. In Italia la Chiesa del dialogo penetrò tramite associazioni come le Acli, movimenti intellettuali e civili come i cattocomunisti o i cristiani per il socialismo. Vi fu un accenno di dialogo anche con autori scettici e conservatori: il più famoso fu tra Paolo VI e Giuseppe Prezzolini, dopo il suo libro Dio è un rischio. I più recenti tra Marcello Pera e il cardinal Ratzinger (che dialogò pure con MicroMega) e tra Oriana Fallaci e monsignor Rino Fisichella. In passato abbozzi di dialogo furono tentati pure con Augusto Guerriero, più noto come Ricciardetto, dopo che scrisse Quaesivi et non inveni. Ma si trattò di esortazioni a conversioni in extremis che non ci furono.

Dove porta oggi quel dialogo, cos'è il tratto comune per atei e credenti? Parte dall'accettazione di un terreno comune, il pensare, e dalla sospensione del terreno diviso, quello del credere. L'universalità che fa dialogare le due sponde è il pensare. Il cattolico ritiene inscindibile il binomio di fede e ragione, l'ateo invece vede nel terreno comune del pensare il sigillo illuminista che mette tra parentesi l'irrazionalità delle credenze religiose. Strettamente connesso a quella premessa è il disarmo bilaterale della verità: ovvero nessuno dei dialoganti, pur convinto della sua scelta, ritiene di detenere il monopolio della verità e di poter decretare in suo nome i dannati e i salvati. Per gli atei la verità è figlia del tempo e dei soggetti; per i credenti noi non possediamo la verità ma siamo suoi figli. I non credenti tendono a prescindere dalla trascendenza e dalla tradizione. Ovvero dialogano mettendo tra parentesi Dio e la millenaria esperienza cristiana e partono dall'umanità di Cristo e dalla Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. Gesù Cristo viene considerato come apostolo della carità, dell'amore verso il prossimo, dell'uguaglianza e del riscatto dei deboli, i poveri e gli sfruttati; e non come il Figlio di Dio. In questa prospettiva, la storia della Chiesa è relegata nel buio oscurantista dei millenni; si salvano solo le origini e gli ultimi 50 anni, grazie al Concilio Vaticano II e ora a Papa Francesco.

Il passepartout che il Papa e i dialoganti di fede porgono ai non credenti è l'amore. Cristo è amore, la verità è amore, la missione della Chiesa è amore verso l'umanità nel nome di Cristo. L'amore disarma ogni resistenza, si può tradurre laicamente in altruismo e filantropia, generosità e carità, ma anche in amore tra gli uomini; se la verità è amore non s'impone con la forza ma è mite, non violenta, rivolta al bene di tutti. Nessuno oserebbe opporsi a questa catechesi fondata sull'amore, che si oppone all'odio e ci connette al mondo. Ma quante volte l'amore confligge con la verità, con la giustizia e la responsabilità? La verità a volte è aspra e contraddice l'amore; il principio su cui si fonda la giustizia, a ciascuno il suo, è in contrasto con la generosità su cui si fonda l'amore; e l'etica della responsabilità urta con la morale del perdono su cui si fonda l'amore. Stabilire un'identità tra amore, verità e Cristo è una magnifica predica ma non corrisponde alla verità del mondo, della condizione umana e al nostro giudizio. La vita, la storia e il pensiero spargono esempi di lancinante divergenza tra amore e verità. E poi non è umanamente possibile amare tutti dello stesso amore.

Sulla stessa ambiguità si gioca il richiamo alla verità: non esiste la verità assoluta, dicono gli atei e i credenti concordano. Ma i primi intendono dire che la verità è relativa, cioè soggettiva e soggetta ai tempi e alle interpretazioni; i credenti invece intendono dire che non è assoluta in senso etimologico, cioè sciolta da tutto, ma al contrario è in relazione con tutto. Due parole simili ma due idee assai diverse: la verità è relativa per gli uni, la verità è relazione per gli altri. Nel credente permane la convinzione che vi sia una verità oggettiva e superiore, rivelata. Nell'ateo, invece, la verità o la sua ricerca resta nell'ambito della coscienza individuale e del processo evolutivo.

Su questi equivoci si può fondare un dialogo fruttuoso? Certo, dialogare è un bene in sé e rispettare, non solo tollerare, chi non la pensa come te è il fondamento di una nuova civiltà. Ma pensare che sia possibile stabilire un'intesa mettendo da parte i principi della fede o giocare sull'equivoco e sulla mozione unanime dell'amore, significa alimentare l'ipocrisia. Vi è una tragica e irreparabile ma onesta e veritiera distanza che non può essere colmata con le buone maniere o con i bei discorsi. Meglio accettare la divergenza, ma disarmarla del disprezzo e della diffidenza che di solito l'accompagna. Se invece si cerca un punto di convergenza del dialogo, si arriva alla riduzione del cristianesimo a catechismo umanitario. A questo punto meglio fermarsi sulla soglia del dubbio: ossia le due posizioni accettano di mettersi in discussione, lasciando la decisione finale a una scommessa di tipo pascaliano, che per il credente si risolve «in dubio pro deo»; ossia nel dubbio meglio scommettere su Dio che sul Nulla. Però questo comporterebbe spostare il baricentro del dialogo dalla ricerca di un'amorevole intesa tra atei e credenti all'interrogativo sul destino dell'essere, dell'uomo e del mondo che esige scelte cruciali e verticali, non consolatorie e interpersonali.

Dio è un rischio e non una pappa del cuore.

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