Dolori, gioie e (molte) corna La vita è una mano di poker

diLa vita è un gioco e il gioco è la vita. Così almeno si dice, specialmente da parte dei giocatori, che del loro vizio hanno grande rispetto. Infatti lo ritengono un'immagine o, quanto meno, una simulazione dell'esistenza umana, coi suoi alti e bassi, le sue sconfitte e le sue vittorie. I «cuori» non sono forse il segno dell'amore che presto o tardi travolge ognuno? E i «denari» non indicano il potere? Che le carte di «fiori» preannuncino buoni eventi e quelle di «picche» disgrazie e guai, è fin troppo noto. È il significato che le chiromanti attribuiscono ai quattro «semi», siano quelli delle carte lombarde, cuori, quadri, fiori, picche, o siano quelli delle carte napoletane, coppe, denari, spade e bastoni.
Nel gioco, la fortuna e la sfortuna, normalmente ritenute forze occulte, diventano visibili e quasi palpabili. Capita, al poker o allo chemin de fer, di vedere come un'ombra grigiastra alle spalle del giocatore sfortunato. Alle spalle di quello in fortuna invece si disegna un alone luminoso. Ombra e alone, se il giocatore cambia posto, lo seguono, come una sua emanazione. Tanto è vero che il cambiar posto, l'andare al gabinetto o anche il fare un giro intorno al tavolo, non serve a nulla. Il giocatore si porta dietro l'ombra o l'alone, come una puzza o un profumo. Naturalmente non si tratta di ombre e di aloni evidenti allo sguardo di chiunque. Sono apparenze visibili solo agli iniziati, ai veri giocatori, a coloro che sono nel gioco di quelle presenze ineffabili e che ne accettano umilmente l'imperio. È un incauto colui che pretende di scacciare la sfortuna e più ancora chi pensa di poter trattenere la buona ventura presso di sé o di chiamarla al suo fianco come si chiama un cagnolino.
Le due apparenze, se così si possono chiamare, vanno da chi vogliono, oppure obbediscono a una legge che non è dato conoscere. Sono come la morte, che va qua e là a suo piacimento. O a piacimento di chi regge l'universo.
Ma perché, è lecito chiedersi, la sfortuna si accanisce su certi tipi e la fortuna si accompagna a certi altri? È un semplice caso o c'è una «simpatia»? Se c'è una simpatia, come ottenerla?
L'impossibilità di aver risposta a simili domande ha dato credito agli amuleti e alle pratiche propiziatorie, che non spostano nulla ma testimoniano la presenza delle due apparenze e la loro funzione. Il fare le corna, naturalmente verso terra, serve secondo alcuni a scaricare le influenze nocive, così come il filo del parafulmine scarica nella terra le folgori. Per cui si ritiene che vi sia una specie di fluido a disposizione di alcune persone che ne possono fare uso, purtroppo, prevalentemente nefasto. Da questa supposizione è nata la credenza nel potere jettatorio di alcuni individui, confortata spesso da verifiche impressionanti. Un noto scrittore, detentore al massimo grado di una simile forma, accompagnando dei visitatori al cancelletto del suo condominio si avvide che un momento prima, mentre scendeva le scale, gli avevano rubato l'automobile, posteggiata sulla strada. L'aveva appena vista dalla finestra e già era sparita.
«Non andranno lontano!» disse cupamente.
Gli ospiti, andandosene con la loro automobile, trovarono quella dello scrittore accartocciata contro una cabina telefonica a un chilometro di strada e i due ladri che stavano per essere trasportati da un'autoambulanza all'ospedale e forse all'obitorio. Lo scrittore aveva operato a distanza, come un raggio laser.
Era stato facile agli ospiti constatare che l'uscita di strada dei ladri si era verificata nel momento stesso in cui la frase jettatoria veniva pronunciata a un chilometro di distanza.
«È il limite massimo della mia operatività» aveva detto lo scrittore appena appresa la notizia. «Ancora pochi metri ed erano in salvo».
Sono misteri, sui quali si specula facilmente come su tutte le cose sconosciute o mal certe. Il giocatore, che di tali fluidi fa continua esperienza, si famigliarizza con le presenze occulte. Alcune volte le personalizza in un compagno di tavolo, in un cameriere o in un oggetto qualsiasi. Un giocatore col quale ebbi occasione più volte di trovarmi al tavolo, quando perdeva con troppa regolarità, si alzava, andava all'attaccapanni, prendeva il suo cappello, se lo calcava in testa e riprendeva a giocare. Col cappello non perdeva più e spesso addirittura rovesciava la sorte e andava in vincita. Ma l'espediente ebbe breve durata, perché anche gli altri giocatori si alzavano e andavano a mettersi il cappello o il berretto, neutralizzando il potere di quel nuovo tipo di antenna parafulmini.
Con gli episodi di gioco si potrebbero fare dei libri, e si può dire che in ogni libro che parli in qualche modo di gioco ce n'è più di uno, sempre legato a questioni di scalogna o di fortuna.


Un tale, dal cognome assai comune e nel quale chissà quanti potrebbero riconoscersi, ogni sera, quando si metteva al tavolo di gioco perdeva fino alle ventitré poi cominciava a vincere. Si seppe presto che sua moglie, appena uscito di casa il marito, riceveva un amico di famiglia col quale restava fino alle ventitré.
© Arnoldo Mondadori editore

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