Il Don Chisciotte londinese e i mulini a vento di New York

I semi della Grande Mela

Il Don Chisciotte londinese e i mulini a vento di New York

Gli Stati non erano ancora Uniti. I nativi non erano ancora morti. A comandare erano gli emigrati. E le gangs non erano ancora gangs, bensì salotti dove olandesi, irlandesi, scozzesi e inglesi, uniti soltanto dal disprezzo per i francesi «mangia aglio», battevano moneta a loro piacimento, contando quella procurata loro dai fiorenti commerci. Nel ventesimo anno di re Giorgio II, il 1746, New York era un paesone di settemila anime male assortite, mentre nell'altro mondo Londra ne contava settecentomila.

Da questo melting pot scaturisce un melting... plot molto teatrale (quasi da teatro elisabettiano, quasi shakespeariano) in cui il filo rosso della narrazione è retto dal più classico degli stranieri, estraneo a tutto e a tutti, enigmatico, indecifrabile. Si chiama Richard Smith, ha ventiquattro anni e viene proprio da Londra, la vera capitale, il cui potere non è per nulla diluito dalle acque dell'oceano. Il giovane reca con sé una lettera di cambio di mille sterline, un'autentica fortuna, un tesoro piovuto sull'isola di Mannahatta (ovvero Manhattan), come la chiamano i suddetti nativi stanziati lì nei paraggi e come la ricorderà, oltre un secolo dopo, Walt Whitman. Ma chi è quel tale? Le ipotesi formulate dai locali si sprecano. Un mago saraceno? Una spia dei francesi? Un illusionista turco? Un walpoliano? Un gesuita? Un giacobita? Un attore? Oppure, più banalmente, l'impiegato di un banchiere o l`apprendista di un notaio che ha rubato la preziosa missiva al suo padrone?

Dopo L'ultima favola russa, il suo primo romanzo a essere tradotto in italiano (da Bollati Boringhieri nel 2013), in Golden Hill (ancora Bollati Boringhieri, pagg. 378, euro 18, traduzione di Carlo Prosperi) l'inglese Francis Spufford conferma di saper padroneggiare ben altri tempi e ben altri spazi. Dall`Unione sovietica degli anni '50 e '60 del Novecento, raccontata attingendo alla storia reale altrui e alla propria fantasia con una carrellata di personaggi che credono, ciascuno a suo modo, alla "favola" del comunismo, passa al seme di quella che diventerà la Grande Mela, dimostrandosi un lussureggiante talento del romanzo storico, un genere ultimamente in gran forma al di qua e al di là dell'Atlantico.

L'1 novembre, appena sbarcato dall'«Henrietta», il nostro Richard Smith punta dritto verso l'ufficio contabilità della ditta Lovell & Company, in Golden Hill Street, appunto. Vuole incassare ma, nel breve volgere di due mesi, dovrà incassare, come un pugile sul ring, molti sonori colpi della sorte. Sul palcoscenico abilmente apparecchiato da Spufford, sarà un po' romantico e un po' avventuriero, un po' truffatore e un po' truffato, un po' furbo e un po' ingenuo. Insomma, un trasformista in missione nella città dove tutto è destinato a trasformarsi. I Lovell, ovviamente, diffidano di lui, come pure i Van Loon, una famiglia di ricchi olandesi. L'unico a prenderlo in simpatia, facendogli da cicerone nel Nuovo Mondo, è Septimus Oakeshott, segretario del governatore Clinton. A prenderlo invece per... il naso è la viziata e annoiata Tabitha, secondogenita dei Lovell, che gioca con lui come una gatta capricciosa col topo.

New York, dice Hendrick Van Loon, «è solo un gargarozzo. In pochi vi si fermano». Anche Richard, in effetti, si sente di passaggio. Il cordone ombelicale che lo lega a Londra è più saldo della sàrtia di una nave, ma finisce per legarlo laggiù contro il suo volere. Come il Joseph Andrews di Henry Fielding e come il David Simple di sua sorella Sarah, creati proprio negli anni '40 del Settecento e citati da Spufford nella nota finale, il Nostro è un Don Chisciotte anglosassone, e viene travolto dal turbine provocato dai mulini a vento del suo idealismo.

Impossibile non fare il tifo per lui quando è travolto dal baillamme della notte di Guy Fawkes, celebrazione del fallimento della congiura delle polveri contro Giacomo I d'Inghilterra, o quando finisce due volte in galera per colpe parziali e discutibili, o quando un comprensibilissimo (e motivatissimo) impulso erotico lo trasforma nel nemico pubblico numero uno, avendo cornificato niente meno che il governatore...

E forse l'antieroe Richard Smith, del quale soltanto dopo due terzi del romanzo intravediamo le origini e le motivazioni, più che a un «cavaliere dalla triste figura» somiglia a un moderno Ulisse che, partito

dall'antica civiltà europea, si arena sulla "spiaggia" di Manhattan. Che non è e non sarà mai una nuova Itaca, né una nuova Atene, né una nuova Roma. Ma, come Nuova York diventerà, con altri mezzi, la nuova capitale del mondo.

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