Dora Maar, la domatrice del Minotauro Picasso

Prima lo sedusse con la sua creatività e la sua vita surrealista. Poi per sette anni s'illuse di averlo tutto per sé. Ma quando la storia finì non le rimase che la clinica psichiatrica...

Dora Maar, la domatrice del Minotauro Picasso

Venezia - La cronaca racconta che il primo gennaio del 1936, a Parigi, alla proiezione per la stampa del film di Jean Renoir Il delitto del signor Lange, il poeta Paul Éluard presentò Dora Maar (1907-97) a Pablo Picasso. La leggenda dice invece che l'incontro avvenne al caffè Flore (una variante indica il Deux Magots, a poche decine di metri di distanza). Seduta a un tavolino, lei aveva liberato la mano destra dal guanto nero a fiori rosa che la copriva e si divertiva a giocare con un coltello che velocemente conficcava fra le dita aperte. A un certo punto schizzò il sangue e Picasso, seduto poco lontano, espresse un commento in spagnolo, fra l'ammirato e lo stupito, all'amico Sabartés che lo accompagnava. Dora, che aveva vissuto in Argentina, levò allora la testa e lo fissò: aveva 27 anni, contro i 55 del pittore, occhi verde-azzurri, un viso dall'ovale purissimo, gli zigomi alti. Era uno sguardo di incoraggiamento ma, nonostante la sua intraprendenza, Picasso non si alzò: era troppo bella, probabilmente pericolosa, e così giovane, poi... Allora la ragazza fece il nome di qualche amico in comune, il suo ex amante Georges Bataille, Man Ray, Paul e Nusch Éluard e il ghiaccio fu rotto. Cominciò così e insomma, stando alla leggenda, fu Dora Maar a sottovalutare il rischio. Quando poi la storia finì, non le rimase altro che una clinica psichiatrica...
Picasso viveva allora in rue des Grands Augustins, una via stretta e non troppo lunga che dalla Senna si infila lì dove il Quartiere latino diventa Saint-Germain-des-Prés. Stava nel sottotetto, piante di fiori, vecchi divani, sedie d'epoca, libri, strumenti musicali ne popolavano il salone, insieme con scatole di latta, quadri di Modigliani e di Cézanne. Una scala a chiocciola portava alla camera da letto e allo studio dove un Matisse e un piccolo Rousseau decoravano le pareti. In quegli anni, e poi ancora durante la Seconda guerra mondiale, il rituale prevedeva il lavoro al mattino, un pranzo al Catelan lì vicino, la digestione al già citato Flore e poi di nuovo al lavoro...
Picasso era naturalmente già Picasso, l'artista più importante della sua generazione, ma la giovane Dora non era un'illustre sconosciuta. Aveva uno studio fotografico in rue d'Astorg, faceva parte del gruppo Contre-Attaque, aveva partecipato all'Esposizione Internazionale del Surrealismo a Santa Cruz de Tenerife, esponeva alla Galerie de Beaune di Parigi, Cartier-Bresson e Brassaï la portavano in palmo di mano. Il padre era un architetto iugoslavo, la madre, Julie Voisin, era nata nello Charente, a Cognac, la terra amata da François Mitterrand e celebrata nei romanzi di Chardonne.
Al momento dell'incontro, dunque, Dora era lanciatissima e la mostra che ora la consacra al Museo Fortuny di Venezia («Maar. Nonostante Picasso», fino al 14 luglio) è il primo omaggio italiano a un talento singolare e a una personalità poliedrica. Ci sono i suoi «scatti di strada», scene di miseria e vagabondi insieme a frammenti di vita quotidiana, fiere e mercati; il gusto per l'eccentrico, le vetrine di magia, i negozi di tatuaggi, e il tema dello sguardo, gli occhi spenti per sempre, o in trance o nel sonno, che popolano tante sue foto: un cieco che canta, un bimbo che dorme, un uomo sandwich con gli occhi chiusi, un foto-collage surrealista, Ciechi di Versailles, che ne riunisce un gruppo nella residenza che fu dei re di Francia.
Né distaccata né obiettiva, né crudele, l'arte fotografica della Maar era attratta dal misterioso, il magico e il soprannaturale, temi che il surrealismo aveva dispiegato da par suo mischiando pensiero automatico e arte infantile, erotismo e follia. Lei ci mise i monumenti visti da dietro, le sculture che sembravano volare, i manichini iperrealisti, le vedute capovolte, come quella di Il simulatore, dove le arcate dell'Orangerie di Versailles vedono il soffitto divenire pavimento, arcuato come le curve descritte dal corpo del ragazzino che se ne sta al centro, in un equilibrio che sembra precario. Nella mostra c'è anche spazio per i nudi e per i ritratti, quelli della bellissima Nusch Éluard, di Barrault e di René Crevel, nonché per la famosa serie relativa a Guernica, di cui la Maar fissò genesi e evoluzione.
Tutto questo incanto andò in pezzi nei sette anni d'amore e di dolore con Picasso, dopo i quali Dora finì in cura da Lacan, trovò rifugio nella religione, si chiuse al mondo. «Sacrificata al Minotauro» titolarono i giornali quando morì e i suoi beni vennero messi all'asta. All'inizio, lui le aveva mandato messaggi del tipo «Arrotolate alle caviglie il cuore del vostro umile ammiratore» e ne era stato gelosissimo. Quando Jean Cocteau, per ringraziare Dora di averlo fotografato, le aveva inviato un disegno a carboncino, Pablo ci aveva dipinto sopra: Dora era roba sua, e di nessun altro. Andavano a Mougins e a Rayon, l'aveva spronata a riprendere la pittura, realizzarono insieme alcuni fotogrammi... Poi, lentamente le cose cominciarono a peggiorare, via via che nei ritratti di lei fatti da lui la distorsione e la mostruosità si facevano sempre più evidenti. Picasso non voleva fare a meno della moglie, Marie-Thérèse Walter, e poi più tardi della nuova amante, Françoise Gilot, e Dora era troppo fragile per una liaison a tre o a quattro, dove Pablo era come il classico gallo per il quale le galline si azzuffavano in attesa di essere possedute.

«Come artista sarai meraviglioso, ma moralmente non vali niente. Non hai mai amato nella vita, non ne sei capace», gli disse lei prima del collasso nervoso che la portò al ricovero e all'auto-reclusione. «È tutta colpa dei surrealisti», sintetizzò lui.

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