Enea, Elena e... la mafia. L’epica della guerra in una "Città in fiamme"

Il romanzo inaugura una nuova trilogia ambientata lungo le spiagge del Rhode Island, dove l’autore è cresciuto. Si ispira agli antichi e mette in scena "famiglie" di italiani e irlandesi in lotta

Enea, Elena e... la mafia. L’epica della guerra in una "Città in fiamme"

Per gentile concessione dell’editore HarperCollins Italia pubblichiamo parte del capitolo 3 di Città in fiamme, il nuovo romanzo di Don Winslow, che sarà in libreria dal 26 aprile (pagg. 400, euro 22; traduzione di Alfredo Colitto). Si tratta del primo libro di una nuova trilogia, a cui seguiranno Città di sogni e Città in cenere.

Danny e Liam saltano a bordo della Camry di Pat e cinque minuti dopo sono a Mashanuck Point.
«Qual è il motivo della riunione?» chiede Pat al fratello.
«I Moretti vogliono tassare lo Spindrift» gli ricorda Liam.
«È nel loro territorio».
«No, il Drift è sotto clausola di esenzione».
È vero, pensa Danny, guardando fuori dal finestrino. Il resto dei locali sulla costa è degli italiani, ma lo Spindrift è irlandese fin dai tempi di suo padre. Lo conosce bene, si ubriacava lì quando lavorava sui pescherecci, e a volte ci andava ad ascoltare i gruppi blues locali che si esibivano nei fine settimana estivi.
Il proprietario, Tim Carroll, è un amico.
Passano accanto a campi di mais e Danny si stupisce come sempre che quei terreni non siano stati edificati.
Appartengono da trecento anni alla stessa famiglia, yankee di palude, testardi, che preferiscono coltivare il mais piuttosto che vendere la terra e andare in pensione da ricchi. Ma Danny ne è contento. È un bel posto, quello, con i terreni agricoli che arrivano fino all'oceano.
«Cosa è successo?» chiede Pat al fratello. «Tim è venuto da te?»
È una violazione del protocollo. Se Tim ha un problema, deve andare da John, o almeno da Pat, non da Liam, il fratello più piccolo.
«Non è venuto da me» risponde Liam, in tono difensivo.
«Ero lì a bere una birra, ci siamo messi a parlare...»
Ci sono così tante piccole penisole e paludi d'acqua salata lungo la costa, pensa Danny, che per andare in un posto qualsiasi devi prima dirigerti verso l'interno, poi tornare verso il mare. Sarebbe tutto più facile se bonificassero le paludi e costruissero una strada costiera, ma quello succede in Connecticut, non nel Rhode Island.
Nel Rhode Island ci piacciono le cose difficili, non quelle facili da trovare.
L'altro motto non ufficiale dello stato è: Se dovevi saperlo, l'avresti saputo.
Perciò in auto ci vogliono diversi minuti per arrivare allo Spindrift, quando avrebbero semplicemente potuto andarci a piedi lungo la spiaggia. Ma ci vanno in macchina, superando i campi di mais, il negozietto di alimentari, la bancarella degli hot dog, la lavanderia automatica, il chiosco dei gelati. Quando affrontano la curva che li riporta vicino all'oceano, alla loro sinistra c'è un parcheggio per camper, e poi il bar.
Parcheggiano proprio davanti.
Appena entri, capisci che lo Spindrift non è una macchina da soldi. È un vecchio locale in legno, battuto dal sale e dai venti invernali per oltre sessant'anni. È incredibile che sia ancora in piedi. Un vento forte potrebbe abbatterlo, pensa Danny, e la stagione degli uragani è in arrivo.
Tim Carroll è dietro il bancone, e sta preparando un cocktail per un turista.
È magro come un chiodo, i chili non gli restano attaccati nemmeno con la colla. Ha trentatré anni, ma la responsabilità di gestire il locale dopo la morte di suo padre lo sta facendo invecchiare in fretta. Si asciuga le mani sul grembiule e viene loro incontro.
«Peter e Paul sono già qui» dice, accennando con il mento alla terrazza. «Con loro c'è anche Chris Palumbo».
«Qual è il problema?» chiede Pat.
«Vengono qui come fossero i padroni» risponde Tim. «Quasi ogni pomeriggio. Bevono, ordinano sandwich, hamburger, e non pagano nulla. Hai visto i prezzi della carne, ultimamente? E quelli dei panini?»
«Sì, capisco».
«E ora vogliono anche una busta» continua Tim. «Io ho dieci, massimo undici settimane d'estate per fare un po' di soldi, il resto dell'anno non guadagno un cazzo. Vengono solo pescatori e gente del posto, che si fanno durare la stessa birra per due ore. Senza offesa, Danny».
Danny scuote la testa, a indicare di lasciar perdere.
Escono da una porta scorrevole aperta sulla terrazza appollaiata in modo precario sopra delle rocce messe lì dallo stato per evitare che tutta la baracca scivoli in mare.
Da lì Danny riesce a vedere tutta la costa sud, dal faro di Gilead fino a Watch Hill.
È bellissimo.
I fratelli Moretti siedono a un tavolo bianco di plastica sul quale Chris Palumbo ha poggiato i piedi.
Peter Moretti è il classico mafioso italiano: capelli neri e folti tirati indietro con il gel, camicia nera dalle maniche arrotolate per mostrare il Rolex, jeans firmati e mocassini.
Paulie Moretti è magro, un metro e ottanta scarsi, carnagione scura, capelli castano chiaro con colpi di luce e arricciati con la permanente. La permanente, pensa Danny. Ora va di moda, ma a lui non piace per niente.
Paulie gli è sempre sembrato più portoricano che italiano, ma non glielo direbbe mai.
Chris Palumbo è molto diverso. Capelli rossi come se venisse da Galway, ma a parte questo è italiano come il ragù della domenica. Danny ricorda cosa diceva di lui il vecchio Bernie Hughes: «Non fidarti mai di un italiano testarossa. Sono il peggio del peggio».
Infatti, Peter è intelligente e furbo, ma Chris lo è ancora di più. Peter non fa una mossa senza di lui, e se Peter un giorno farà il grande salto e diventerà un capo, Chris sarà senza dubbio il suo consigliere.
Gli irlandesi avvicinano delle sedie e si accomodano, mentre una cameriera porta due caraffe di birra. Gli uomini riempiono i bicchieri, poi Peter chiede a Tim: «Sei corso a chiamare i Murphy?».
«Non sono corso da nessuna parte. Stavo solo facendo due chiacchiere con Liam, e...»
«Siamo tutti amici, qui» interviene Pat, per evitare la discussione su chi è andato da chi.
«Tutti amici» conviene Peter, «ma gli affari sono affari».
«Questo posto non paga tasse» dice Liam. «Non è mai successo e non succederà. Il padre di Tim e il mio...»
«Suo padre è morto» lo interrompe Peter. Poi guarda Tim. «Riposi in pace, non volevo mancargli di rispetto. Ma l'accordo è morto con lui».
«C'è una clausola di esenzione» dice Pat.
«Cioè, è esente per sempre» obietta Peter, «perché trent'anni fa un irlandese cuoceva qui le sue patate?»
«Pete, per favore...» dice Pat.
Interviene Chris. «Secondo te chi ha detto al dipartimento Lavori Pubblici di mettere qui queste rocce, in modo che il locale non diventi una zattera come se fossimo nella storia di Huckleberry Finn? Sono trenta o quarantamila dollari di materiale, per non parlare della manodopera».
Pat ride. «Be', mica li avete pagati voi».
«L'abbiamo organizzato noi» ribatte Chris. «E Tim non si è lamentato affatto, allora».
«Io per la roba da mangiare mi servo già dal vostro fornitore. Sai quanto mi fa pagare la carne? Troverei prezzi molto più bassi altrove».
È la verità, pensa Danny. I Moretti realizzano già dei guadagni su quel locale, con i distributori automatici e con le percentuali che prendono dai grossisti, per non parlare di tutte le consumazioni che non pagano.
«E quando vedrai un ispettore sanitario esaminare a fondo la tua cucina» continua Chris, «sarà la prima volta».
«Ma loro non mangiano la mia roba, capito?»
Peter si china verso Pat.

«Stiamo dicendo solo che abbiamo avuto delle spese relative a questo posto, e pensiamo che Tim dovrebbe contribuire. È una cosa tanto irragionevole?»
«Non posso darvi quello che non ho» si lamenta Tim.
«Non ce li ho i soldi, Peter».
Peter fa spallucce. «Forse possiamo trovare un modo».

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