Enzo Magrì aveva un portamento da hidalgo e un naso da boxeur. Catanese, aveva per la Sicilia l'odio-amore di chi sentendosela troppo stretta e soffocante, se n'era dovuto andare a Milano per respirare professionalmente. Ne parlava come si parla di un familiare che ti ha deluso, ma di cui, per legami di sangue, non ci si può separare. «Solo standone lontano, ne posso sopportare la vicinanza» diceva.
Naturalmente, conosceva benissimo il dialetto milanese e altrettanto naturalmente lo parlava con accento siciliano: «Detesto quei meridionali che al Nord fingono di essere piemontesi, lombardi». Enzo Magrì è stato uno dei grandi inviati dell'Europeo, quello mitico delle grandi foto e del grande formato: era il re dell'intervista, così come Oriana Fallaci ne era la regina. Aveva cominciato al Giorno, quello altrettanto mitico di Italo Pietra, come cronista, e più tardi, dopo la lunga parentesi dell'Europeo di Tommaso Giglio, ci ritornò da capocronista e con successo.
Però a soffrirne era la sua vena di raccontatore di storie, e così alla fine tornò al primo amore. Purtroppo erano cambiati i tempi, e con essi erano arrivati nuovi direttori: Magrì aveva un «cattivo carattere», come si dice di quelli che hanno un carattere, e fu un susseguirsi di litigate. Quando alla fine degli anni Ottanta all'Europeo arrivò Vittorio Feltri, i due «cattivi caratteri» si riconobbero di primo acchito e fu l'inizio di una felice collaborazione che continuò quando Feltri prese la direzione del Giornale. Qui al Giornale, Magrì alternò interviste a repêchages storici. Per le prime, chi scrive gli riservava il paginone centrale della cultura e da Alberto Arbasino a Alberto Sordi, Enzo inanellò una serie di perle che restano a futura memoria, dove l'intelligenza dell'intervistatore stava nel creare una simbiosi tale con l'intervistato che questi si raccontava come se fosse sul lettino dello psicanalista: vuotava il sacco, insomma, non provava vergogna e alla fine era contento.
Per i secondi, c'era l'imbarazzo della scelta, perché Magri era nel tempo diventato un biografo a tutto tondo e da Salvatore Giuliano al delitto Notarbartolo, dallo scandalo della Banca di Roma a Pitigrilli aveva ricostruito in libri di successo la storia italiana della prima metà del Novecento, i crimini rimasti impuniti e la corruzione della politica, la fragilità del sistema liberale e l'entrata in scena del fascismo, le miserie della classe intellettuale e l'arretratezza di quella industriale. I ritratti di Guido da Verona e di Luigi Barzini, il principe degli inviati italiani, chiusero il ciclo di quella che è una vera e propria storia d'Italia e tutti restano come testimonianza di una felicità di scrittura messa al servizio delle fonti, spesso e volentieri inedite e frutto di quel suo fiuto di cronista che gli permetteva di trovare lì dove nessuno avrebbe mai pensato di cercare.
Adesso Enzo Magrì non c'è più, se n'è andato pochi mesi fa, ma sapendolo in anticipo ha pensato bene di congedarsi con un librone di oltre cinquecento pagine che si chiama Guerre di carta (Pietro Macchione editore, euro 25) e che è una storia del giornalismo milanese dal 1859 ai giorni nostri. Si comincia con gli scapigliati del Gazzettino Rosa i quali, seduti ai tavoli di Biffi, provocavano gli ufficiali degli Ussari; si continua con Carlo Romussi, il re della cronaca de Il Secolo di Milano, e con il suo rivale Dario Papa, redattore capo del Corriere della Sera, il più noto giornalista dell'Italia di fine Ottocento, e a cui si deve la definizione dei giornalisti come di «un popolo di charcutieres improvvisatisi cavalieri». Come si vede, l'idea del giornalismo coma bassa macelleria viene da lontano. E poi, ancora, c'è spazio per i «redattori viaggianti», che in seguito prenderanno il nome di inviati, del primo fotoreporter, Luca Comerio, della fascistizzazione della stampa e della definizione, data da Critica fascista, la rivista di Bottai, del giornalismo di regime come «regno della noia», con il che si capisce che gli stessi fascisti non ne potevano più d'essere fascisti.
Guerre di carta è esemplare nel suo mischiare l'alto e il basso e nel riportare alla mente realtà che oggi sembrano incredibili. La Notte di Nino Nutrizio giunse a vendere 250mila copie, negli anni Cinquanta l'Unità arrivava, con le sottoscrizioni, al milione di copie, all'inizio degli anni Settanta L'Europeo di Tommaso Giglio vendeva 200mila copie ed era fatto da diciotto giornalisti...
«Un mestiere inutile» sospirava, «di cui non si può fare a meno» concludeva ridendo. Ci mancherà.
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