Filosofi nella Grande guerra agli ordini di Henri Bergson

Cent'anni fa il pensatore francese idealizzò la contrapposizione fra spirito (Francia) e materia (Prussia). Iniziava la battaglia delle idee che si combattè in tutta Europa

Filosofi nella Grande guerra agli ordini di Henri Bergson

Cent'anni fa la filosofia andò alla guerra. A dir la verità, l'interventismo culturale riguardò gli scrittori, i letterati, gli artisti, gli esteti armati e gli ideologi più che i filosofi. Nel 1914, all'alba del conflitto, Oswald Spengler già scorgeva Il tramonto dell'Occidente. Il suo testo profetico, concepito prima della guerra, vide la luce alla fine del conflitto: a tramontare però fu l'Europa, non l'Occidente. In America John Dewey fu interventista, in Gran Bretagna Bertrand Russell sposò invece il pacifismo; freddi sulla guerra furono i filosofi tedeschi ed ebrei Edmund Husserl e Georg Simmel. Max Weber, già anziano, diresse l'assistenza sanitaria nelle retrovie. Partirono per la guerra il tedesco Rudolf Carnap e l'austriaco Ludwig Wittgenstein, fatto prigioniero dagli italiani. Fu contro la guerra il filosofo della violenza Georges Sorel che tifava per le rivoluzioni rosse e nere e temeva con la guerra il sacco d'Italia.
Da noi furono interventisti Giuseppe Rensi, socialista e massone, Papini, Prezzolini e Salvemini. Varisco scrisse nel 1913 un saggio dedicato a La Patria. Piero Martinetti, invece, criticò la guerra che sovverte e sradica i popoli. Croce fu neutralista ma non pacifista, anzi fu tra coloro - come Tilgher e Missiroli - che propendevano per un nostro intervento a fianco dell'Austria e della Germania. Giovanni Gentile teorizzò nel 1914 in una conferenza a Palermo la filosofia della guerra, e usò la filosofia tedesca - di Hegel, Fichte e perfino Kant - per incitare l'Italia alla guerra contro i tedeschi, per compiere il Risorgimento. Gentile riteneva che il filosofo non potesse restare neutrale, pensò la guerra come un evento cosmico «nell'eterna storia dell'uomo» e un dovere morale, ma esortò a vedere «anche nel nemico un fratello che divide con noi le dure necessità di un tragico cimento».
Il filosofo più celebre del suo tempo che si schierò apertamente a favore della guerra fu Henri Bergson. Ebreo parigino, già famoso per opere come Materia e memoria, Il riso e L'evoluzione creatrice, nel 1914 avallò il nazionalismo francese. Cent'anni fa, in un discorso pronunciato da presidente dell'Accademia di Scienze morali e politiche, Bergson spiegò Il significato della guerra (l'opuscolo con lo stesso titolo è uscito in Italia da Mimesis l'anno scorso). Bergson spiegò il conflitto alla luce della sua filosofia e vide opporsi in armi la fluida vitalità dello spirito alla rigida meccanicità della materia, la creatività dell'evoluzione all'automatismo ripetitivo dei processi, l'intuizione alla macchina. Proiettò il proprio pensiero nel conflitto tra le nazioni, fino a identificare la Francia con lo slancio vitale, la potenza creatrice e spirituale, e la Germania prussiana col sordido intreccio di «militarismo e d'industrialismo, di macchinismo e meccanismo e basso materialismo morale». Per lui la Prussia era la patria della rigidità e dell'automatismo, imprigionata in un'armatura imposta dal «genio del male» come egli definì Bismarck. Tutto era sottomesso nei tedeschi alla volontà di dominio. Bergson rinfacciò ai tedeschi già nella prima guerra mondiale, ben prima del nazismo, una visione razzista che celebrava la forza brutale come segno divino. Una specie ante litteram di Gott mit uns, Dio con noi; o, se vogliamo, un rigurgito barbarico dell'ordalia e del giudizio di Dio.
Già nel 1914 Bergson notava che la Germania aveva adottato uno scrittore francese «che noi non avevamo letto» e che teorizzava l'ineguaglianza delle razze: Arthur de Gobineau. Ma oltre la denuncia precoce del razzismo tedesco, Bergson vide nella guerra mondiale il conflitto tra lo spirito e la tecnica, tra lo slancio vitale e la macchina con l'alta precisione. Francamente è difficile vedere negli Imperi centrali e non piuttosto nell'America i veicoli della Macchina e dell'automatismo industriale. Ed è arduo accusare i tedeschi di disprezzare lo Spirito per far vincere la Materia. Un perverso vitalismo si nascondeva nella razzismo biologico tedesco e tanto tuoneggiare di spiritualismo hegeliano accompagnava il militarismo prussiano. Ma la lettura filosofica di Bergson è impolitica, prescinde dalla storia europea ed è ancora ignara della rivoluzione bolscevica e dell'intervento americano. La guerra è vista da lui con gli occhi del precedente conflitto franco-prussiano e con la mente acuta nel cogliere le energie profonde della vita ma poco incline a capire la temperie storica, ideologica e rivoluzionaria dell'epoca. Bergson non colse la portata catastrofica del conflitto mondiale. In Italia il suo pensiero era stato tradotto e divulgato da Papini. Bergson venne nel 1911 a Bologna al congresso di filosofia e spiegò l'intuizionismo.
Al di là delle sue intenzioni, Bergson influenzò il nazionalismo nascente, il sindacalismo rivoluzionario ispirato a Sorel e anche il fascismo. Fu, con Nietzsche e Ortega y Gasset, padre del vitalismo che percorse il Novecento. Il pensiero come movimento. Riaffioravano nel suo pensiero l'esprit de finesse pascaliano in lotta con l'esprit géométrique cartesiano. Il pensiero di Bergson ha influenzato ambiti assai diversi, da Proust a Deleuze. Il suo libro Materia e memoria (edito in Italia da Laterza) è un'acuta dimostrazione dell'autonomia dello spirito, e dunque dell'anima e della mente, dalla materia, dal corpo e dal cervello. Lo spirito non risiede in alcuna parte del corpo, sostiene Bergson, perché il corpo agisce nello spazio, lo spirito no. Lo spirito si coglie invece nel tempo, la memoria è sintesi del passato e del presente in vista del futuro, e il ricordo è il punto d'intersezione tra spirito e materia, tra l'anima e le cose. In Bergson c'era già la madeleine di Proust e il suo universo.
Al tempo della guerra, Bergson partecipò a svariate missioni diplomatiche e scrisse dopo la guerra un testo, L'energia spirituale (ed. Cortina) che costituì un'acuta lettura filosofica della psiche dopo Freud. Bergson infranse la concezione quantitativa e progressiva del tempo, distinguendo tra intensità e durata. C'è un tempo interiore che si dilata, si contrae e non corrisponde alla misurazione del tempo. Bergson calò la metafisica nella vita tramite l'intuizione. Fu tra i rari filosofi che vinse il Nobel per la letteratura per la sua prosa scintillante (gli altri furono Russell e Sartre, che lo rifiutò). Nello stesso 1914 in cui era stato chiamato a presiedere l'accademia, Bergson vide le sue opere messe all'indice dalla Chiesa. Bergson, che ebbe come allievo il filosofo cattolico Maritain e come amico lo scrittore Péguy, morto in guerra proprio nel 1914, fu poi sul punto di convertirsi al cattolicesimo ma si trattenne per solidarietà con gli ebrei in difficoltà per le prime persecuzioni. Rifiutò dal regime di Vichy di essere dispensato per il suo prestigio dalle leggi antisemite; volle cioè condividere il destino degli altri ebrei e si dimise da tutte le cariche; ma aveva ormai ottant'anni. Quando morì, nel 1941, volle però un prete cattolico e un funerale cristiano.
In un discorso all'Accademia del 1915, Bergson previde che dopo il secolo dedicato alle scienze fisiche, il Novecento sarebbe stato il secolo delle scienze morali. Dopo la macchina e la materia avrebbe trionfato lo spirito, lo slancio vitale, l'energia creativa.

Non fu una felice intuizione, visto il seguente dominio planetario della Tecnica, evidenziato da pensatori tedeschi come Spengler, Jünger e Heidegger. La tecnica trionfò, eppure i tedeschi persero anche l'altra guerra...

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