Gigolò, asceta e soldato La tripla vita di Fermor

Eccentrica figura di seduttore, solitario e combattente, l'autore di Mani si sentiva esule in patria. Una nuova (e definitiva) biografia spiega perché

Gigolò, asceta e soldato La tripla vita di Fermor

Nel 1956 il quarantunenne Patrick Leigh Fermor, fresco scrittore di successo ed eroe della Seconda guerra mondiale, riuscì a farsi invitare in casa di William Somerset Maugham. Ottantenne mostro sacro della letteratura inglese, Maugham viveva nella Ville Mauresque di Cap Ferrat: era ombroso, suscettibile, balbuziente. La giornata fu piacevole, Fermor talmente brillante e educato che il padrone di casa, conquistato, lo invitò a restare da lui per qualche giorno. Arrivò l'ora di cena e, fra una pietanza e l'altra, Paddy non trovò di meglio che raccontare di un suo amico che balbettava, rifargli il verso pensando di far ridere, provocare il silenzio fra gli ospiti e rovinare la serata. «Aaarrivederci» gli disse poi il padrone di casa: «Qqqquando domani mmmattina mi sssveglierò, lei sarà gggià andato via».

Il giorno dopo ci fu chi cercò di ricucire la situazione. Signorilmente Maugham acconsentì a una colazione riparatoria, dove lui balbettò a volontà e Leigh Fermor, conversatore compulsivo, non spiccicò che qualche sillaba. «Un gigolò di mezza età per donne dell'upper class» sarà da allora la descrizione che il primo diede del secondo.

In questo quadretto grottesco c'è, al meglio e al peggio, il ritratto di chi fu Fermor (1915-2011), seducente e, suo malgrado, indisponente, divertente, emotivo e gaffeur, attratto dal mondo di ieri, ma al fondo incapace di rispettarne le più elementari convenzioni, innamorato di se stesso e perciò disattento nel confronto con gli altri. Per certi versi, anche il giudizio di Maugham, romanziere e uomo velenoso come pochi, ha la sua parte di verità. Gigolò in fondo Paddy fu sin da ragazzo: a vent'anni andò a convivere con una nobildonna romena, Balasha Cantacuzene, che aveva sedici anni più di lui; Joan Eyres Monsell, che poi sarà sua moglie, dopo una quasi quarantennale relazione, era più grande di lui di tre anni, lo mantenne a lungo e gli passava pure i soldi per i suoi svaghi sessuali... L'una e l'altra, e molte altre ancora, più vecchie e più giovani, faranno parte di quel milieu aristocratico mondano che su Fermor agirà come una calamita: le tenute di campagna e i pied-à-terre in città, i parties e i clubs, i titoli e le onorificenze, le biblioteche ricche di libri interessanti e i mobili bar forniti di buone bottiglie.

Eppure, come racconta ora Artemis Cooper nella sua biografia Patrick Leigh Fermor. An Adventure (John Murray, pagg. 448, sterline 25), se tutto questo è stato Paddy, c'è tantissimo Paddy anche nel suo esatto contrario: l'ascetico frequentatore di monasteri dove ritrovare la pace e lo stimolo a scrivere; l'innamorato di una Grecia fiera e feudale, della sua lingua, della sua gente; lo scrittore sempre in lotta con la propria ansia di perfezione; il militare sempre a disagio con le gerarchie e sempre a proprio agio con i colpi di mano; l'autodidatta sempre in fuga dalle specializzazioni universitarie, i cursus honorum, le accademie...

Nipote di Lady Dyana Duff Cooper che di Fermor fu grande amica, figlia di un diplomatico e moglie dello storico Antony Beevor, specialista della Seconda guerra mondiale, Artemis Cooper non solo ha una conoscenza diretta del soggetto del suo libro e del mondo da lui frequentato, ma ha anche potuto disporre del suo archivio, di quello del suo editore, della corrispondenza e della testimonianza di amici e conoscenti e insomma di tutto quell'insieme di fonti e di confronti che fa del libro una biografia difficilmente superabile per documentazione e intelligenza critica.

Fermor è stato un autore tardo, ha cominciato a 45 anni, e non prolifico (sette libri in mezzo secolo, a scadenze quasi decennali, quello più noto in Italia è Mani. Viaggi nel Peloponneso, grande e inatteso successo per Adelphi nel 2006). Della sua trilogia, cominciata con Tempo di regali e proseguita con Between the Woods and the Water, il terzo volume non è mai uscito ed è stato per lui fonte di amarezze e di pessimismo: stando alla Cooper sarebbe composto da un diario, il Green Diary, del 1939, e da un testo degli anni '60 nato originariamente per una rivista e poi rivelatosi troppo lungo e fuori tema, l'uno e l'altro negli anni rivisti, corretti, ripresi, rimessi da parte. Come ha scritto Cyril Connolly in Enemies of Promise, «la pigrizia negli scrittori è sempre il sintomo di un conflitto interiore. I perfezionisti sono notoriamente pigri e ogni artistica indolenza è profondamente nevrotica; un dolore e non un piacere». C'è in tutta la vita di Fermor un insieme di vagabondaggio, difficoltà a godere una pace interiore, tentativo di ritrovare se stesso immergendosi negli altri. Per certi versi, il dono della sanità fisica gli giocò contro, lo illuse sul fatto di aver comunque tempo: a settant'anni fece la stessa traversata dell'Ellesponto compiuta da Lord Byron a vent'anni un secolo e mezzo prima, e Between the Woods and the Water uscì proprio allora...

Il completamento della trilogia avrebbe significato mettere la parola fine a quel mondo degli anni '30 a cui Fermor si era avvicinato con uno spirito ancora ottocentesco, come se la Prima guerra mondiale non lo avesse già scosso nelle fondamenta. Veniva da lì la passione per le lingue e i popoli, le tradizioni, i canti e le processioni, gli intrecci familiari e l'idea di uno spirito comune attraverso i confini e le nazioni. Aveva fatto in tempo a vivere nel cuore del Vecchio continente come se l'impero austro-ungarico fosse ancora esistito, e solo lo scoppio della Seconda guerra mondiale lo aveva spinto a ritornare a casa. Finire quel libro era come un suicidio.

Fermor è morto un anno fa in Inghilterra, dove ha voluto essere seppellito, nonostante abbia passato tre quarti della vita all'estero, i Balcani e la Grecia.

Aveva scritto che l'Inghilterra era uggiosa, «come vivere nel cuore di una lattuga», non era mai riuscito ad accettarne le regole e infatti si era visto espellere dalle scuole, licenziare dall'unico posto di lavoro che il sistema si era degnato di procurargli. Era stato il simbolo di quella eccentricità che gli anglosassoni amano e insieme tengono a distanza, e con cui ci si riconcilia al momento dei funerali, quando ormai il tempo dei regali è diventato cenere.

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