Cultura e Spettacoli

Giovannino Guareschi e l'Italia dalla specchiata onestà

Il ritratto del Bel Paese di Giovannino Guareschi: Don Camillo, il rapporto con Montanelli, il carcere

Giovannino Guareschi e l'Italia dalla specchiata onestà

Fu una vita travagliata, ma intellettualmente onesta, quella di Giovannino Guareschi, scomparso troppo presto: aveva 60 anni, come tanti altri grandi dalla penna e dal cervello fine, quando l’Italia, che profumava d’inchiostro e tabacco, avrebbe avuto ancora tanto bisogno di lui.

Raccontare Guareschi vuole dire raccontarne capriole, cadute, genialità, coraggio, avventure e disavventure. Vuol dire imbattersi in quell’Italia che ancora non aveva scoperto il progresso, i lussi e le comodità e viveva tra uscio e bottega, tra sagrestie e campi di grano, tra sezioni di partito, busti del Duce, di Stalin e statuette in gesso della Madonna.

Un’Italia che si arrangiava, barattava, viveva di espedienti, faceva affari sulla parola, perchè la stretta di mano contava più di un atto notarile, corredato da bolli e bollini. I proverbi erano il pane quotidiano, le piazze gremite di mercanti, agricoltori e ambulanti, le chiese rigogliose di fiori freschi e raramente si sentiva lo scoppiettio delle prime auto di proprietà di grandi possidenti o austeri avvocati di campagna.

I baffi misurati e ben calibrati, il tabarro, la bicicletta - che poi sarà sostituita con il Guzzino - e le lunghe pedalate per attraversare quella pianura dai campi infiniti, viottoli ghiaiosi, osterie sempre aperte, cascine fumanti, nebbie fitte e carrozze cigolanti trainate da cavalli.

È nel pieno della provincia parmense, la stessa che diede i natali a Giuseppe Verdi, che Guareschi nacque, visse e morì. E anche quando arrivò il successo con il tanto chiacchierato Bertoldo o con Il Candido, Guareschi rimase fieramente un figlio della terra, della provincia e del dialetto, della tavola calda e della semplicità.

E appena potè abbandonò Milano, che si apprestava a diventare capitale economica dell’Italia, e si ritirò nella sua campagna, nel suo feudo di Roncole di Bussetto, tra culatelli, mazzuoli, chiodi e cazzuole. Perché Guareschi, disegnatore tanto brillante da far impallidire i potenti e papaveri dell’epoca, era anche un appassionato artigiano e se ne stava compiaciuto, senza sfigurare, tra carpentieri, falegnami e muratori.

Fu proprio attorno al suo estro artigianale che si creò la celebre polemica a “salve” con Indro Montanelli. Andrea Rizzoli, figlio del più celebre Commenda, Mimmo Carraro e lo stesso Montanelli andarono a trovare Guareschi. Accolti calorosamente gli ospiti, il padrone di casa, orgoglioso nel rimarcare che tutto era fatto con le sue mani, li invitò a sedersi. Ma, quando si sedette Andrea, robusto e pesante e la sedia non resse, questi “ruzzolò per terra in un groviglio di assi, di chiodi e di viti”.

Giovannino si dispiacque non tanto per la caduta dell’ospite, quanto per la sedia che inspiegabilmente si era rotta. Quando Guareschi lesse questo episodio nel libro di Montanelli edito per Longanesi, I rapaci in cortile, si arrabbiò a tal punto, immaginiamo noi, da sobbalzare sulla sedia a dondolo della cucina disseminata di busti e ritratti dei Re d’Italia, e prendere carta e penna per scrivere - dalle pagine del Candido anno ’53 - al “denigratore” Signor Indro Montanelli ben due lettere.

Al fianco di Prezzolini, Longanesi, Montanelli e tanti altri italiani, più o meno noti, che hanno segnato la cultura italiana, non possiamo certamente non includere, Giovannino Guareschi da Fontanelle, classe 1908, giorno di nascita, destino volle, 1° Maggio - non aggiungiamo altro per non infierire - odiatissimo dai comunisti a cui preferivano Stalin, inviso ai democristiani, cui tuttavia devono la delicata vittoria elettorale del ’48, quando dal suo cilindro di parole estrasse la celebre formula “Nella cabina Dio ti vede, Stalin no”.

Il carcere

Integrità è forse la parola che più si addice alla complessa e straordinaria fenomenologia guareschiana. Conosciuto al grande pubblico italiano e internazionale come il padre di Don Camillo, l’autore ante-litteram del compromesso storico, senza nulla togliere a Moro e Berlinguer, è stato anche un integerrimo cittadino prima del Regno e poi della Repubblica italiana, che pagò un prezzo altissimo per la libertà e i suoi ideali, e che, anche quando ebbe la possibilità di farla franca, preparò il suo fagotto e andò in galera.

Era il ’54 e il tribunale di Milano ritenne Guareschi colpevole di diffamazione nei confronti dell’onorevole Alcide De Gasperi. Sul Candido aveva pubblicato una serie di documenti, nello specifico due lettere presumibilmente attribuite al futuro presidente del Consiglio e leader della DC, in cui De Gasperi chiedeva agli Alleati di bombardare Roma come azione anti tedesca. Storia torbida che nel corso delle ricostruzioni storiche ha visto anche venir fuori il ruolo dei servizi segreti italiani, forse intenti, almeno in parte, a colpire De Gasperi.

Giovannino, che già aveva preso 8 mesi con la condizionale per una vignetta su Einaudi, a testa alta, e convinto della bontà della sua pubblicazione, scrisse: “In me rimane la piena, assoluta, matematica sicurezza che quei documenti siano autentici”.

Dopo un processo rapido, varcò il portone del carcere di San Francesco di Parma, un ex monastero sconsacrato e vi rimase per più di 400 giorni. Ma, pochi giorni prima che entrasse in carcere - ricorda Giorgio Torelli nel suo libro I baffi di Guareschi - una berlina si presentò in via Righi a Milano davanti la sua abitazione. Era il ministro dell’Interno Scelba, venuto a proporre una trattativa per evitargli quella pena. Avvertito della presenza dell’importante esponente governativo, Giovannino rimase al piano di sopra a battere sulla sua macchina da scrivere per ore finchè il ministro spazientito e rassegnato lasciò la casa. Guareschi aveva scelto un’altra volta la prigionia. Ma, a differenza dei lunghi e gelidi mesi passati nei lager nazisti di Sandbostel, non ci sarebbe stato l’amico e pittore Beppo Novello a tenergli compagnia.

Il rapporto con Torelli

Montanelli nello studio del Giornale (adesso a Fuccecchio presso la Fondazione Montanelli Bassi) aveva alle sue spalle un dipinto di Novello in cui era ritratto Giovannino Guareschi prigioniero in Germania. Ricordo che il grande giornalista parmense Giorgio Torelli, classe 1928, che ebbe modo di conoscere e intervistare Guareschi, mi raccontò in uno storico colloquio: "Andai a trovare Novello poco prima che morisse, aveva una mano paralizzata, non poteva più dipingere, e riceveva la visite di don Gnocchi. Montanelli di lui diceva: “Io non credo, ma se per caso dovessi andare in cielo e non ci trovassi Novello, allora vorrebbe dire che voi parlate di un Dio che è diverso”.

Giorgio Torelli, firma storica del Giornale e della Gazzetta di Parma, colui che Montanelli chiamava "il portatore di buone notizie", ha avuto modo di conoscere da vicino queste grandi figure della cultura anticonformista italiana: “Grandi persone, grandi capoccioni - Montanelli diceva: 'Guareschi è più capoccione di me' - di grande volontà e talento, tutti e due hanno dato molto all’Italia e sono morti amareggiati perché si sono battuti per un’Italia diversa che poi non c’è stata”.

Il primo incontro tra il giovane Torelli e il già celebre Guareschi avvenne nel 1949, quando il primo dirigeva un piccolo giornale universitario, Il Landò, e avevo deciso di intervistarlo.

Torelli che oggi ha 94 anni spendidamente portati e continua a scrivere con la macchina da scrivere, mi disse: "Guareschi viveva in un appartamento in Via Pinturicchio 25, con la moglie Ennia e i due figlioletti Alberto e Carlotta. Era tutto un po’ pittoresco, aveva un suo angolo con la macchina da scrivere, matite, pennelli, sigarette, fiammiferi… Lui apprezzò la mia visita, mi regalò un bellissimo disegno e poi mi scrisse una lettera, dicendo che non bisogna scrivere difficile ma semplice, perché tutti possano capire”.

Guareschi morì “solo”, seppur amatissimo dalla sua famiglia e con oltre cento milioni di lettori in tutto il mondo, che vollero conoscere le peripezie di quel parroco di Brescello, che parlava con Cristo e stringeva la mano al comunista Peppone.

Negli ultimi anni della sua vita aprì prima un bar e poi un ristorante. Intervistato da un giornalista televisivo, che gli chiedeva come si poteva conciliare il giornalismo con la cucina, con la sua solita pungente e straordinaria ironia, rispose - passandosi prima la mano sinistra sui baffi ammorbiditi dal vino - : “Sai, quando facevo del giornalismo, gli esperti mi hanno consigliato parecchie volte di darmi all’agricoltura. Ho seguito il loro consiglio. Purtroppo, gli esperti di agricoltura mi hanno consigliato di ritornare al giornalismo. Allora ho scelto questa attività, perché non danneggia né il giornalismo né l’agricoltura”.

Il polpettone alla Don Camillo fu servito. Ma al caffè il dubbio rimase: caro Guareschi, ma Lei a Stalin somigliava parecchio? “No - avrebbe risposto - è lui che somiglia a me. Alla salute”. Cin cin.

(Ringraziamo per la gentile concessione dell’articolo l'editore Francesco Giubilei che lo ha pubblicato sulla rivista Nazione Futura)

Commenti