Cultura e Spettacoli

La gioventù bruciata di Welsh in un'overdose di mediocrità

L'autore di "Trainspotting" torna in "Skagboys" sul tema della crisi esistenziale dei giovani anni '80-90. E lo fa con un'analisi ancora più acuta e pessimista

La gioventù bruciata di Welsh in un'overdose di mediocrità

Com'è che «un giovane figo della classe lavoratrice di queste belle isole», ovvero la Gran Bretagna, si trasforma negli anni '80 del Novecento in un tossico? Se si sceglie l'approccio economico, la risposta sta nella crisi occupazionale, la mancanza di prospettive che genera vuoto, la necessità di ammazzare il tempo fuggendo in un'altra dimensione. Una lettura socio-psicologica metterà invece l'accento sulla frustrazione dovuta alla mancanza di un ruolo e di uno status: «Troppo fighetto per essere un vero tosto di periferia, troppo topo di corea del cazzo per fare lo studente di lettere. Tutta la mia vita è in mezzo, né di qua né di là».

Detto in altri termini, il sistema ti garantisce l'istruzione, ma la classe sociale da cui provieni ti ricorda che non è sufficiente. Per aprirti una strada dovrai sgobbare molto di più rispetto al tuo coetaneo che per censo, ceto, frequentazioni, ha con la cultura una dimestichezza più ampia e maggiori possibilità di scelta. E comunque, la busta paga che ne ricaverai è da sopravvivenza. Ne valeva la pena, ne vale la pena? Una terza lettura, invece, è di tipo individuale, non ha a che fare con la società, ma con il singolo, le sue scelte, i suoi desideri. «Gli stronzi che cercano di psicanalizzare i fattoni non capiscono il punto centrale: certe volte lo fai solo perché è lì, ce l'hai sottomano, e sei fatto così». Qualunque sia la risposta, resta comunque uno stato di fatto: «Che cosa era successo a questo Paese? L'esprit de corps generato da due guerre mondiali e un impero grandioso adesso sembrava lontanissimo. Ci stavamo spezzando, lentamente ma inesorabilmente».

Skagboys di Irvine Welsh (Guanda) ruota intorno a queste chiavi di lettura, riprendendo e ampliando quel Trainspotting che all'inizio degli anni '90 segnò l'esordio letterario di un talento di tutto rispetto. Se lì c'era la storia di un pugno di ragazzi di Edimburgo che trovavano nella droga e nella violenza l'unica risposta possibile a un vicolo cieco fatto di casa, famiglia e impiego ordinario, qui c'è l'antefatto, il lento e inarrestabile scivolare nel pozzo senza fondo dell'eroina, sempre pensando di poterne uscire all'ultimo momento. Di solito, quando è ormai troppo tardi.
In Skagboys Welsh dà voce a un proletariato urbano giovanile la cui povertà non è tanto economica, ma si alimenta delle frustrazioni dei «non garantiti», aggravate dalla seduzione di una società dei consumi che celebra ogni giorno i suoi fasti e ti dà sempre l'illusione di poterne far parte. Ne ricostruisce il linguaggio gergale (reso in modo impeccabile dal traduttore Massimo Bocchiola), un misto di afasia e di puro e semplice flusso emotivo; le passioni musicali e quelle calcistiche; la logica del branco dove c'è un «capo», dei «soci» e una fedeltà istintiva che non tollera tradimenti, ma si nutre di pulsioni distruttive; gli interni velleitari e insieme piccolo-borghesi, «marchi di fabbrica di perdenti allo sfacelo cronico».
Più compatto rispetto a Trainspotting, Skagboys è più ambizioso, più felicemente ambizioso visto il risultato, perché racconta un «prima» dove tutto è più fluido e in fieri, perché ha a che fare con le tentazioni e le scelte, i pentimenti, i delitti e i castighi. È un affresco generazionale che vede la fine della sicurezza sociale nei genitori, e lo spettro della disoccupazione a vita in quei loro figli che per l'idealismo, la tensione verso l'assoluto tipica dell'età non ce la fanno a rassegnarsi alla logica del meno peggio, dello stato di necessità, del dover accettare qualsiasi cosa perché l'alternativa è non avere niente. «Io non vengo assunto con una scelta, cretini del cazzo: vi prego di non scambiare me per uno di quei disgraziati droni che vagano per la città in trance alla ricerca di un lavoro che non esiste. Aiuto-garagista. Mai in questo cazzo di vita. Fate entrare nei vostri merdosi uffici dei moduli per Playboy miliardario e allora potrei, dico solo potrei, essere interessato».

Fra sussidi di disoccupazione spesso intascati truccando le carte, furtarelli, qualche prestito e qualche lavoretto, non ci vuole poi molto per vivere ai margini scegliendo di fare banda a parte nel gioco della vita. E non c'è nessuna idea di degradazione in chi, non riconoscendosi in una moralità dominante, mette al primo posto il raggiungimento del proprio piacere, tanto più artificiale quanto più sganciato da qualsiasi palingenesi di rinascita: nella vita come nel lavoro, o nell'amore. Nel romanzo si coglie perfettamente l'inizio di quella che ancora adesso è l'onda lunga di una crisi globale. Per certi versi, la fine degli anni '70 è la fine del socialismo e del capitalismo come sino ad allora erano stati intesi, ma anche del concetto di sovranità nazionale. La politica diventa una variante dell'economia, la globalizzazione mette in crisi le risorse e le risposte nazionali, la speculazione finanziaria provoca fallimenti a catena. Nelle società industrializzate, non è la miseria il detonatore dell'inquietudine, ma la povertà di ritorno, il ritrovarsi con tutti gli strumenti della media agiatezza di massa, la tv e la macchina, il supermarket, l'assistenza scolastica e quella medica, e vedere la loro lenta ma costante erosione. La perdita del potere d'acquisto fa il resto, ed è come scendere uno dopo l'altro i gradini della scala sociale senza capire il come e il perché.

Nei protagonisti di Skagboys non c'è passione politica o volontà di cambiamento, ma il rifiuto di un modo di vivere la cui mediocrità, nel senso della bassa intensità dei desideri, non è altro che un arrendersi alla vita fino a che non sopraggiunge la morte. E allora, tanto vale sballarsi. A fotterli, paradossalmente è proprio la giovinezza. «Ma è vero? Voglio dire, diventa più facile?» chiede il tossico Rent Boy al poliziotto che è riuscito a convincere il suo amico che minacciava di buttarsi dalla finestra, dicendogli che «dopo» sarà meglio, che c'è un futuro migliore. «Lo sbirro scuote la testa. “Un cazzo: diventa ancora peggio. Succede solo che le aspettative che hai della vita calano. Ti abitui alla merdosità e stop”. “E se non ti ci abitui, se non ce la fai proprio ad abituarti?”.

“Be', quella finestra lì non scappa mica”».

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