Ai «pericolosi rivoluzionari» è tutto sommato facile prendere le misure, essendo ogni rivoluzione pericolosa de facto, per chi la fa e per chi la subisce. Invece i «pericolosi conservatori» sono tutt'altro che prevedibili, e quindi decifrabili, e quindi catalogabili. I «pericolosi conservatori», strana specie di animale politico perennemente in via d'estinzione ma che per fortuna non s'estingue mai, a volte paiono dare un colpo al cerchio e uno alla botte, dicendosi capitalisti ma anche anarchici oppure imperialisti ma anche apolidi o ancora statalisti ma anche federalisti.
Gilbert Keith Chesterton, poi, è il «pericoloso conservatore» più pericoloso e più conservatore, non essendo né capitalista né anarchico, né imperialista né apolide, né statalista né federalista. Non era capitalista perché non era laburista, visto che considerava l'una e l'altra posizione le due facce della stessa medaglia. Non era anarchico, nutrendo scarsissima fiducia nell'individualismo eletto a sistema. Non era imperialista in quanto nazionalista, considerando l'imperialismo espansionistico l'esatto opposto del nazionalismo geloso custode dei propri confini. Non era apolide in quanto orgoglioso (ma con giudizio...) della propria inglesità. Non era statalista, visto che per lui lo Stato era, per dirla marxianamente, una «sovrastruttura» della nazione. Non era federalista, temendo la dispersione, nei rivoli del localismo, dell'identità patria. Insomma, forse il «pericoloso conservatore» Chesterton era soltanto G.K. Chesterton, un libero pensatore, pericoloso per gli intruppati del partito preso e conservatore di se stesso.
Nulla di meglio, per comprenderlo, che leggere Impressioni irlandesi, una raccolta di nove lunghi articoli scritti nel 1918 per The New Witness e proposti ora per la prima volta in Italia (Medusa, pagg. 140, euro 16, trad. Cristiano Casalini). Li si potrebbe sottotitolare «Dal nostro inviato nel cuore dell'Irlanda». La prima guerra mondiale era agli sgoccioli, certo, ma molta acqua (e non certo limpida) doveva ancora passare sotto il ponte della «questione irlandese». Così l'autore coglie la palla al balzo per mettere i puntini (e che puntini...) sulle «i» del proprio rapporto con la sua Inghilterra. Che non esista a definire affetta da «prussianesimo».
L'apparente paradosso dell'Inghilterra prussiana, illustrato dall'arguta penna di Chesterton, diventa quasi una tautologia. Perché la radice della nemica Germania affonda nel suo esser stata la preda del prussianismo, nel suo essere il risultato di una guerra di conquista in cui un giocatore si è preso tutto il piatto del «teutonismo» avocandolo a sé. E che cosa stanno facendo, da un lato l'Inghilterra della deriva unionista, dall'altro gli estremisti indipendentisti del Sinn Féin? Stanno tradendo, per motivi opposti ma convergenti, le loro identità. La Rivolta di Pasqua questo ha detto: «L'unionismo fu semplicemente fondato sul teutonismo».
E allora? Allora servono due passi indietro per andare avanti: il passo indietro rispettoso dell'Inghilterra nei confronti dell'Irlanda, e il passo indietro degli irlandesi che devono abbandonare la (teutonica) mitologia celtica. Perché Chesterton non ha «bisogno di avere sangue irlandese nelle vene per non volere sangue irlandese sulle mani».
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