Un saggio di Stefano Fabei ricostruisce, a distanza di un secolo, il confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti soreliani in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti e rappresenta la clamorosa fine di due miti – quello pacifista e quello internazionalista – che sembravano intramontabili nel sindacalismo rivoluzionario italiano. Da quest’ultimo, che fu l’anima dell’interventismo rivoluzionario, ebbero inizio le turbolenze di un dopoguerra, fatto di sovversivismo e richiami all’ordine, da cui partirono sia il fascismo sia l’antifascismo.
Ne La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, 18.00 €) Fabei rappresenta l’alta tensione ideologica di allora e offre un quadro finalmente completo delle sfumature di pensiero e dei vari comportamenti di quei sindacalisti (da Filippo Corridoni ai fratelli De Ambris, da Angelo Oliviero Olivetti a Sergio Panunzio, da Paolo Orano a Edmondo Rossoni e Michele Bianchi, tanto per citare i più noti) che non solo dettero scandalo aderendo alle ragioni della nazione mostrandosi consapevoli di come si potesse essere al contempo nazionalisti e rivoluzionari, ma videro nella la guerra qualcosa di pedagogico, di esaltante e di fortemente sovversivo: imparando a fare la guerra, i lavoratori italiani, delle industrie e delle campagne, avrebbero imparato a fare la rivoluzione.
Per un eccesso di entusiasmo e forse per la troppa ingenuità, gli «anarco-sindacalisti» non compresero – ma come avrebbero potuto farlo? – che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con una limitata entità politica suprema e molta responsabilità di categoria sarebbe stata cancellata dopo la guerra, quando lo Stato dimostrò come il peso accumulato durante il conflitto, inserendosi profondamente nel tessuto economico, non sarebbe stato abbandonato, anzi. Il Fascismo, nel quale molti sindacalisti rivoluzionari interventisti confluirono, spesso con un significativo apporto sul piano organizzativo e dottrinario, non avrebbe infatti trovato ostacoli nell’affermare, in contrasto con le loro premesse iniziali, un ruolo dello Stato che andava ben oltre il peso del Partito fascista e dei sindacati, trasformati in organismi di diritto pubblico.
Fabei giustamente rappresenta il contesto in cui operarono quei sindacalisti che non potevano prevedere gli sbocchi del loro pensiero e delle battaglie da essi combattute prima e durante la guerra. Il secondo semestre del 1914 e i primi mesi del 1915 furono, d’altra parte, un periodo in cui il movimento rivoluzionario in Italia visse uno stato di crisi, dottrinaria, morale e politica, dopo una precedente fase di consolidamento dimostrato, tra il 1912 e il 1914, dall’accresciuto numero di militanti e di consensi attorno alle tesi dei leader più intransigenti della sinistra, come Mussolini, pure lui protagonista di una parallela, e per certi aspetti simile, evoluzione.
Scoppiato il conflitto, messi in discussione importanti cardini ideologici, come il pacifismo e l’internazionalismo, peraltro falliti per le scelte compiute dai compagni francesi, austriaci e tedeschi, i nostri sindacalisti soreliani si convinsero che la guerra potesse offrire non soltanto una lezione di pedagogia eroica e rivoluzionaria al proletariato italiano, ma creare, attraverso la sconfitta degli imperi germanico e austro-ungarico, baluardi della reazione e della conservazione, i presupposti per fondare una società più libera e giusta, con al centro il lavoro.
Dotato di un’introduzione di Giuseppe Parlato, quello di Fabei è un libro avvincente
per la leggibilità e al tempo stesso specialistico; un saggio interessante, data l'originalità dei contenuti, per chi vuole conoscere la storia nazionale dalla vigilia della Prima guerra mondiale alle origini del fascismo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.