Bisogna immaginare un montaggio alternato, parossistico e incalzante come avrebbe voluto Eisenstein, dove il protagonista è un anno intero, esattamente un secolo fa, il 1913. Secondo lo storico dell'arte tedesco Florian Illies è l'atto di inizio del '900, o forse di una frazione di tempo sospesa nel limbo prima della guerra mondiale. Illies scrive un libro molto bello, intitolato appunto 1913 (Marsilio), a metà tra la docu-fiction e il saggio romanzesco. A Berlino e Vienna, Parigi e New York, passano in rassegna tutti quei personaggi decisivi per un cambiamento epocale, in bilico tra progresso e decadenza. Se infatti il clima è quello delle avanguardie, basti pensare al primo ready made di Marcel Duchamp e al Quadrato nero su fondo nero di Kazimir Malevic, due opere estreme che decretano l'inizio dell'arte contemporanea, intorno si avverte un mood talora malsano, impregnato di inquietudine e pessimismo. Ma allora alla crisi - questa la differenza rispetto al presente - si opponevano continui stimoli di ricerca innovativa, dalla psicanalisi alla letteratura, dall'arte figurativa alla poesia.
Illies racconta per brevi sequenze lo scorrere del tempo di questi 365 giorni. Ricorda che il primo istante del 1913 fu uno sparo nella notte di New Orleans: arrestato un dodicenne, Louis Armstrong, che si calma solo quando il direttore del riformatorio gli mette tra le mani una tromba. L'impiegato delle assicurazioni praghesi Franz Kafka ha cominciato a scrivere La metamorfosi, mentre Stalin e Hitler si incontrano per caso in un parco di Vienna, poco distante dallo studio dove Sigmund Freud riceve la visita di un'enigmatica gatta. A Berlino, Kirchner trova il linguaggio giusto per dar inizio alla pittura espressionista, cruda e selvaggia, e a Monaco, Oswald Spengler è alle prese con la prima parte della sua monumentale opera Il tramonto dell'Occidente. Un altro che si contorce nel proprio isolamento, questa volta a Parigi, è Marcel Proust. «La vita è breve e Proust è lungo», chioserà Anatole France.
In febbraio comincia a New York l'Armory Show, il «big bang dell'arte moderna», protagonista quel Duchamp che si stanca in fretta del successo dei suoi quadri e annuncia di voler continuare la carriera da scacchista. Come in un feuilleton da tardo impero, per tutto l'anno va in scena l'amore tormentato fra l'ambigua Alma Mahler e il geloso e possessivo Oskar Kokoschka. Hitler dipinge acquerelli anonimi con vedute di città, mentre l'arciduca Francesco Ferdinando sfreccia a bordo della sua auto con le ruote a raggi in oro e teme per gli attentati in Serbia. Soffrono in molti: Kafka, Musil che consulta un neurologo e Camille Claudel, ancora inseguita dai fantasmi di Rodin, rinchiusa in una clinica psichiatrica dove resterà trent'anni. Il pubblico non capisce le sperimentazioni di Schönberg e lo prende a schiaffi, mentre il best seller dell'anno, Il tunnel sotto l'oceano, lo scrive un autore oggi dimenticato, Bernhard Kellermann.
Con la primavera Hitler parte da Vienna per Monaco; a Parigi Stravinskij festeggia la prima de La saga della primavera con Cocò Chanel, il cui negozio di cappelli sta ottenendo gran successo. Ancora nessuna traccia della Gioconda, scomparsa dal Louvre nel 1911: il colpo di scena arriverà a fine anno, con Vincenzo Peruggia, il folle aiuto vetraio che si era messo in testa di restituire all'Italia il capolavoro di Leonardo. Tutti scrivono: Thomas Mann, D.H. Lawrence, Rainer Maria Rilke e Georg Trakl, accomunati da insoddisfazione e infelicità. Qualcuno minaccia il suicidio, e Charlie Chaplin firma il primo contratto per una casa cinematografica.
Ci si perde nei fatti narrati da Illies, tanto che verrebbe voglia di ricostruire una time line più ordinata per non perdere nulla di protagonisti e comparse. Andando avanti con la lettura ci si affeziona a queste presenze che nel frattempo hanno assunto un volto come in un film.
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