A Hollywood piacciono gli affaristi cattivi

Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni spiega gli errori di economia più diffusi nei film di Hollywood

Crisi finanziaria, fallimenti, perdita di posti di lavoro. Sono temi di discussione sempre più comuni. Effetti inevitabili della temperie economica attuale. Ma per affrontare questi temi le persone dove prendono le conoscenze di base, i mattoncini con cui costruiscono le loro opinioni, la loro weltanschauung? Raramente dai libri di economia. Anche quando si tratta di bestseller del settore, pensati per essere divulgativi, raggiungono solo una percentuale molto bassa dell’opinione pubblica. A farla da padrone sono i giornali, la televisione e il cinema.

E l’immagine che forniscono alla gente spesso è fallace. Ne dà un buon esempio uno studio prodotto per l’istituto Bruno Leoni e presentato ai «Mises Seminar» (6-7 ottobre) da Rosamaria Bitetti. Bitetti ha preso in esame il tema del fallimento d’impresa. Per gli economisti è un fenomeno normale, che ha anche una carica di positività. Perché il mercato funzioni, le imprese inefficienti devono fallire. Insomma: è un fattore fisiologico, uno di quei meccanismi che consentono ai consumatori di ottenere i prodotti migliori ai prezzi più bassi. E di norma dietro al fallimento di un impresa non c’è qualche oscura macchinazione.

In realtà la percezione comune è molto diversa da questa e cinema e letteratura fanno la loro parte raccontando alla gente una situazione differente. Un esempio? L’idea che le persone hanno di un brocker di borsa, e di fenomeni come l’insider trading, deriva molto più da film come «Wall Street» di Oliver Stone che da informazioni realistiche ed equilibrate. E i film hollywoodiani sul tema della crisi e del fallimento che caratteristiche debbono avere? Beh, come in tutti i film che si rispettino è importante che ci sia un cattivo. Non devono esserci ragionamenti troppo sofisticati. E soprattutto devono essere empatici verso il pubblico (la maggior parte delle persone ha, giustamente, molta paura di perdere il lavoro). Insomma, piccolo cortocircuito, è il mercato che chiede loro di parlare male del mercato.

A questo si aggiunge il fatto che, come spiega Bitetti, essendo il mercato cinematografico uno dei settori in cui è più alto il rischio di fallimento (il 2% dei film si accaparra l’80% del box office) gli stessi produttori e registi cinematografici proiettano su un certo tipo di film i propri personalissimi spettri. I risultati ovviamente sono variabili e alla fine del saggio non manca un gustoso elenco di prese di posizione in alcune pellicole famose (ovviamente negli ultimi anni i film che parlano di crisi sono nettamente aumentati). Nel cartone animato «Ratatouille» a esempio la possibilità di veder fallire il proprio ristorante è raccontata in modo sobrio. In «War Horse» di Steven Spielberg invece il giovane che persegue un’attività economica insensata è un eroe romantico.

In «Tra le nuvole», con Jorge Clooney, viene data grande enfasi alla sofferenza di chi viene licenziato ma alcuni meccanismi del lavoro moderno vengono spiegati bene. In fondo non ci si può lamentare, basta pensare a quanta fortuna letteraria ha avuto Charles Dickens raccontando che la rivoluzione industriale (che ci ha reso più ricchi) era un vero disastro.

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