È nata l'iteologia e non è un refuso. Ma un significativo e diabolico cambio di consonante. La teologia come ideologia. Come sistema di pensiero. Come fissità dottrinaria. Come ricatto intellettuale. O, se preferite, l'ideologia della teologia. La ideo-teologia. Da qui la fusione in una sola parola. La nuova disciplina è un portato degli intellettuali, chierici che vogliono proteggere e dare la linea al Papa. Dirgli soprattutto dove sbaglia. Tutori dell'ortodossia. E della dogmatica. Basta leggere Il Foglio o Libero. O anche Repubblica. Ci fosse uno come Charles Peguy lo chiamerebbe «il governo degli intellettuali». Dopo anni di dispute tra teocon e teodem, superato il semestre di pontificato francescano si sono rotti argini e pudori. Purtroppo per loro, di entrambi gli schieramenti, c'è il sospetto che il cristianesimo c'entri poco con questa roba che sa di politica. Il cristianesimo è qualcosa di più popolare, quasi di ruspante. Persino d'imperfetto, ma «semper reformando» com'è la Chiesa, non a caso Corpo di Cristo. Qualcosa di vivo e, nella sua relazione col mondo, non inchiodato una volta per tutte. Ieri il Papa ha parlato di questo, rispondendo implicitamente a tante critiche di queste settimane. Se un cristiano «diventa discepolo della ideologia, ha perso la fede», ha detto nella sua omelìa durante la messa alla Domus Santa Marta. Quella dei «cristiani ideologici» è «una malattia grave». Se la teologia diventa ideologia, il pericolo è incombente. Cristiani «con la chiave in tasca e la porta chiusa», sbarrata da troppe prescrizioni. A questi cristiani, continua il Papa, «Gesù dice: Voi avete portato via la chiave della conoscenza».
La prima parola chiave della nuova disciplina dell'ortodossia è «continuità». Papa Francesco deve essere agire parlare in continuità col suo predecessore. Sono teologi, filosofi anche preti a porre questo problema. Ma è una questione che si giustifica solo alla luce della presunta superiorità del soggetto nei confronti del quale si chiede la continuazione. In una parola, papa Ratzinger rappresenta il termine di raffronto del suo successore. Quando si palesò Giovanni Paolo II tutti si accorsero di quanto fosse diverso da Paolo VI. Lo stesso si può affermare di Giovanni XXIII rispetto a Pio XII. Ma questa diversità non causò scandalo alcuno come avviene oggi.
I tutori della dottrina non amano il calore con il quale Bergoglio si avvicina a mondi ritenuti distanti, i non credenti piuttosto che i devoti di altre religioni. E ancor più disdegnano quella che considerano una fuorviante apertura sui cosiddetti valori non negoziabili. È il secondo cardine dell'iteologia. Il quotidiano Libero ha intervistato Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, autori di un lungo articolo sul Foglio nel quale spiegavano perché «questo Papa non ci piace», a causa del quale Radio Maria ha interrotto la loro decennale collaborazione. «Avete criticato l'intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari. Non andava bene l'intervista o l'intervistatore?» chiede Libero ai due colleghi. Ecco la risposta: «La scelta di Eugenio Scalfari è singolare e lascia interdetti molti cattolici. Egli infatti non è solo un laico o un non credente, ma uno storico antagonista del cattolicesimo. La Repubblica è il quotidiano simbolo di quella cultura radical chic che ha fatto di divorzio e aborto le colonne di una nuova società nichilista, nella quale non c'è più posto per Cristo e i sacramenti. Diverso sarebbe stato incontrare in modo riservato Scalfari, e parlare con lui in vista del suo bene. E nella speranza della sua conversione». In sostanza, prima ancora che l'opportunità di annunciare Cristo redentore, i valori non negoziabili sono la pietra angolare dell'ortodossia evangelizzatrice. Quasi che il cristianesimo fosse un'architettura filosofica a sostegno di un modello etico di società. I lefebvriani arrivano a scomunicare Bergoglio: «Se l'attuale Pontefice continuerà nel modo in cui ha iniziato, dividerà la Chiesa», ha sentenziato Bernard Fellay, successore di Lefebvre. Secondo quanto sottolineato dallo stesso Giuliano Ferrara, Pierre Favre, gesuita del sedicesimo secolo ispiratore dell'attuale Papa, indicava che il dialogo, all'epoca con i protestanti, dovesse avvenire «su argomenti relativi all'edificazione morale e spirituale, piuttosto che su questioni dottrinali». Detto banalmente, è un cristianesimo affettivo quello a cui tiene Bergoglio. Un cristianesimo che include e tende ad abbracciare prima che a regolarizzare l'appartenenza a Cristo. Il quale si rivolgeva a tutti, e alla luce del sole, senza preamboli moralistici. Mangiava con gli uomini del popolo, entrava nelle loro case, discuteva con le peccatrici.
Un'altra delle categorie stabilite dai guardiani del dogma è quella della «distanza» così eruditamente argomentata da Mario Sechi, sempre sul Foglio. Papa Francesco sarebbe troppo prossimo, troppo poco distante e dunque carente di alterità. Gnocchi e Palmaro lo ribadiscono a modo loro in un secondo pontificale (Il Foglio, 16 ottobre): «Il Papa doveva stare lassù, lontano, quasi irraggiungibile». Ma, a parte la difficoltà d'immaginare il disappunto dei fedeli per il fatto che questo Papa sia troppo accessibile, mi pare che l'incipit di Giovanni parli di un Verbo che «si è fatto carne». Dio si è trasformato in un bambino dentro una grotta. Dove, guarda caso, è stato adorato prima da dei pastori che da dei filosofi. Anche la stessa scelta di Pietro, non esattamente un intellettuale raffinato, ma suo primo vicario in terra, fa pensare a un criterio di amore più che a una precisione teoretica.
L'ultimo terreno di questa eresia pontificia sta nel cedimento ai criteri mondani della comunicazione. Bergoglio sarebbe un «fenomeno mediatico» al punto che, scrivono Gnocchi e Palmaro, «sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco». Tra i molti, uno dei simboli di questa mediaticità scandalosa sarebbe il bagaglio portato a mano da Bergoglio in partenza per il Brasile. «La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l'immagine sacrale tramandata nei secoli... Simone ha spodestato Pietro». Non sarà, in realtà, la «mediaticità» una categoria autoreferenziale di noi comunicatori? Uno schema che applichiamo come fossimo spettatori della rappresentazione globale? Questo Papa ha avuto la forza di eliminare diverse barriere che si frapponevano tra sé e il mondo. Ma questo non è un teatro o il villaggio globale di McLuhan. Bensì il territorio della missione. Gli iteologi insistono sulla scandalosa intervista concessa al fondatore di Repubblica sottacendo il testo autografo della lettera inviata allo stesso quotidiano. Proprio qui, probabilmente, si trova una risposta a molte delle loro paturnie dottrinali.
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