Parigi, oggi. Emilie incontra Camille, attratto da Nora, che incrocia il cammino di Amber. Tre ragazze e un ragazzo ridefiniscono l’amore moderno. Una storia di amicizia, di sentimento, di giovinezza e sensualità: “Parigi, 13Arr.” segna il ritorno dietro la macchina da presa di Jacques Audiard, vincitore della Palma d’oro per “Dheepan – Una nuova vita” e già candidato all’Oscar al miglior film straniero.
Adattamento cinematografico di tre racconti a fumetti di Adrian Tomine, “Parigi, 13Arr.” racconta storie di personaggi persi, alla ricerca di qualcosa che neanche loro riescono veramente a capire. Girato in un sontuoso bianco e nero, con un omaggio visivo al "Manhattan" di Woody Allen, il nuovo film di Jacques Audiard accende i riflettori su giovani che hanno superato la fase dell’adolescenza, alle prese con crisi professionali e sentimentali. Anime perdute, disilluse, che capiranno chi sono veramente, cosa vogliono e cosa amano davvero.
Perché questa Parigi così americana, molto poco nota? Ha a che fare con la modernità, con la globalizzazione?
“Questo per me faceva parte del progetto. La globalizzazione è ripresa anche nell’uso delle varie app all’interno del film. Volevo anche normalizzare questo aspetto interetnico, con una giovane cinese che può sembrare un giovane franco-africano. Volevo che fosse una cosa scontata”.
Il sesso è la chiave di questa epoca per i giovani?
“Io non ho la pretesa di parlare al posto dei giovani. Non appartengo alla categoria dei giovani da un bel pezzo, ma avevo da tempo voglia di scrivere una storia d’amore. Il mio film di riferimento è quello di Rohmer, ‘La mia notte con Maud’. È come se facessi un nuovo inventario sul discorso amoroso. Esiste anche oggi un discorso amoroso? Ritengo di sì, ma volevo capire in che modo si traduce. Nel film di Rohmer ci sono un uomo e una donna che parlano tutta la notte di qualsiasi cosa, ma quando è il momento di fare l’amore si tirano indietro. Oggi il principio si è invertito: si va a letto con le persone la prima sera. Mi interessava capire quale forma prende il discorso amoroso al giorno d’oggi”.
La sensazione è che l’immagine abbia preso il posto della parola…
“Probabilmente non abbiamo mai scritto così tanto nella storia, ma oggi c’è una scrittura sommaria. Da una parte c’è l’impero delle immagini, dall’altra parte l’impero di un discorso povero”.
Perché ha scelto di girare in bianco e nero?
“Il bianco e nero è una sorta di fantasia di ogni regista. Credo anche che in qualche modo il bianco e nero lotti contro la televisione: bisogna sapere che in Francia se si decide di fare un bianco e nero danno meno soldi per farlo. Io volevo il bianco e nero per mostrare Parigi in un altro modo. Normalmente è uno standard del passato, immagino infatti che il ‘Belfast’ di Branagh parli del passato. Ma io lo considero uno standard dell’era moderna. Se lo applico a Parigi, è per mostrarla come se non fosse Parigi. Per questo si ha la sensazione di essere in una metropoli asiatica”.
C’è grande abbondanza di sesso nel film, soprattutto di sesso etero…
“È impossibile per me avere dei personaggi che parlano di amore e limitare l’atto amoroso. Io trovo che sia bello fare queste riprese. Mi sento un po’ a disagio, ma questo giustifica la correttezza di ciò che faccio. È un peccato che il film venga vietato ai minori di 14 anni. Per quanto riguarda l’amore mostrato nel film, sia etero che omosessuale, il paradosso sta nel fatto che la relazione più intima e sincera si svolga attraverso due donne e uno schermo di un computer. Potrei fare il sequel di questo film e raccontare l’amore tra queste due donne. Nel film all’inizio ci sono tre personaggi: un ragazzo e due donne. Questi personaggi si sbagliano su ciò che sono davvero. C’è solo un personaggio che non si sbaglia: Amber Sweet, lei sa chi è e cosa rappresenta”.
Sembra esserci una fusione tra la corrente di suo padre (il regista Michel Audiard, ndr) e quella di Rohmer, in forte antitesi. È corretto?
“Forse sono un po’ un figlio indegno (ride, ndr). I dialoghi nei film di mio padre avevano qualcosa di aggressivo e di abbastanza performativo. Erano spiritosi e divertenti, ma non ricordo storie d’amore nella filmografia di mio padre Michel. Forse sto colmando un vuoto”.
Che differenza c’è tra adattare una graphic novel, che ha già una forte componente visiva, e adattare un romanzo?
“Non ricordo di avere incontrato delle difficoltà diverse rispetto a quelle di un adattamento di un romanzo. Mi sono accorto tardi è che una delle ultime graphic novel era in bianco e nero. Non saprei se questo mi ha portato a fare il film in bianco e nero. Ma quando si fa l’adattamento di un’opera straniera, si pone il problema dell’esotismo. Credo che sia stato questo il filo portante dell’adattamento e anche per questo motivo ho scelto il bianco e nero e di voler girare a Parigi come se fosse una città straniera. E credo anche che questo aspetto interetnico abbia partecipato all’adattamento. Il grande contributo della graphic novel è stato quello di proporre personaggi a cui non avrei mai pensato: la giovane asiatica, la cam-girl e così via. Questa interetnicità non esiste molto nel cinema francese”.
Sorprende l’assenza quasi totale di adulti…
“È vero. I protagonisti si trovano nella fase che precede quella della responsabilità, delle scelte da fare. Vogliono rimanere in questo limbo. E c’è un fatto sociale sorprendente, accelerato dall’epidemia da Covid, ovvero quello delle persone che lasciano il lavoro e decidono di andare in provincia a farei dei lavoretti”.
C’è stata una sequenza difficile da girare?
“Le scene d’amore e di sesso sono difficili da girare, come le scene di violenza. Se viene mostrato l’atto di sesso, diventa cinema pornografico. Io ho scelto di fare lavorare gli attori con un coreografo e con un coach. Una volta arrivati sul set, sono stati loro a fare tutto: io dovevo semplicemente stare a distanza e inquadrare. Loro hanno provveduto all’atto, ai gesti…”.
A parte Noèmie Merlant, il cast è composto in gran parte da debuttanti assoluti: come mai questa scelta?
“Sì, è il motivo per il quale ho fatto tantissime prove. Non avevano molta esperienza. Abbiamo dovuto colmare questo divario facendoli lavorare molto. Tre giorni prima di cominciare le riprese ho affittato un teatro a Parigi e hanno fatto tutto il film. La paura delle riprese era venuta meno e sapevano cosa dovevano fare, o se c’erano debolezze e punti di forza”.
Il finale si stacca violentemente dal resto del film, è molto ottimista…
“Per me sarebbe impossibile raccontare una storia che finisce drasticamente male. Il finale tragico è una scorciatoia a livello di sceneggiatura. Volevo che il finale sottolineasse il cambiamento dei personaggi, il cambiamento della loro vita”.
C’è stata una critica che l’ha sorpresa in Francia?
“Io ho girato abbastanza film e sono un cinefilo, conosco abbastanza bene i critici francesi. Non sono mai sorpreso a casa mia, so già cosa diranno e di cosa parleranno (ride, ndr). Le sorprese arrivano all’estero, dove non conosco il pubblico”.
Sta già preparando un
nuovo film, in che direzione andrà?“Sarà una commedia musicale che girerò in Messico. Aspettiamo di vedere il risultato per pronunciarci (ride, ndr). A me le commedie non piacciono, è strano, ho un po’ di paura”.
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