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Lermontov e il destino di un eroe di ogni tempo

Lermontov, il poeta russo russo morto in duello come il protagonista del suo romanzo più famoso, è uno spunto di riflessione per gli "eroi" del nostro tempo

Lermontov e il destino di un eroe di ogni tempo

Nasciamo per essere ciò che siamo, o forse è la nostra vita a finire per adeguarsi a quella di chi vorremmo essere? Ad assomigliare, negli amori, nei balzi temerari come nelle beghe, a quella di coloro che sono stati e che bramiamo diventare. Seppure sempre a modo nostro.

Tutto a volte sembra combaciare nella storia che vogliamo raccontarci. La disperata ricerca del traguardo verso il quale ci spinge o ci sprona l’ambizione; afflitti da avvilenti eterne attese o da malvagie illusioni. Persi in dozzine di laceranti fallimenti che fendono l’anima come sciabole affilate - in perenne e solitario duello con un fato avverso. In attesa della nostra ascesa. Impegnati a proteggere ideali romantici di un tempo diverso. Svanito. Talvolta pronti anche a morire per essi: come si sono sempre dimostrati essere i poeti russi.

“L'ambizione non è un vizio da gente di poco conto”, sosteneva Michel De Montaigne. “Io sono Dio - o non sono nessuno!”, terminava invece un malinconico e spavaldo ufficiale degli ussari della guardia di San Pietroburgo. Perso nei suoi fogli bagnati d’inchiostro e lacrime - da sempre unico rifugio della ribellione dell’anima inquieta -, un giovane poeta iniziava a paragonarsi al sublime Byron in una delle sue poesie ancora sconosciute, vergate tra il 1830 e il 1832. Gridava alla notte: “Come lui dal mondo vessato, cominciai presto, finirò prima”. E infatti presto avrebbe finito. Quando nemmeno dieci anni dopo, un colpo di pistola sparato nel duello che lui stesso si era procurato - l’ennesimo - lo privò del piacere di questo mondo; che abitava, neanche a dirlo, alla maniera scostante e placidamente disillusa dei ribelli per vocazione.

Pare che l’unica regola che rispettino i ribelli per vocazione, per etichetta o per destino, sia quella di voler pagare con la vita la loro assurda ambizione. Una vita fatta romanticismo e nichilismo, scandita da avventure e tormenti. Non è un caso infatti, se i poeti russi, i più affascinanti tra i poeti, sono da sempre esempio da emulare. E non è un caso, se l’eroe di questa storia, è considerato esempio per eccellenza di coloro che vennero dopo di lui.

Michail J. Lermontov, come l’ultimo avversario dell’Eroe dei nostri tempi - l’alter ego Pečorin - è morto a soli 26 anni. Nel 1841. Appena un anno dopo aver terminato il suo romanzo più famoso: il succitato.

“Di natura complessa”, era un “singolare miscuglio di intelligenza crudele, di finezza, di volgarità, di brutale cinismo e di raffinata sensibilità”: aveva tenuto a descrivere così il protagonista del suo capolavoro di prosa, parlando niente altro che di se stesso. Un’intelligenza che l’autore aveva mostrato fin da giovanissimo, serrato a chiave nella mansarda dove era cresciuto leggendo e componendo poesie già da i primi anni dell’adolescenza. Un brutale cinismo che, inaspritosi con le prime sofferte delusioni sentimentali, finì col farlo espellere nel 1832 dall’università di San Pietroburgo a causa di forte un attrito con un insegnante. E poi mandare in esilio per ben due volte. Il motivo era la sua lingua lunga e tagliente come una spada che gli procurava tanta fama quanti nemici. Nemici che poi era solito sfidare a duello.

Spedendolo una prima volta in esilio sul Mar Nero, Nicola I, zar di tutte le Russie, lo aveva bollato come un “triste talento” che infliggeva attraverso mediocri scritti dei mefitici spunti di misantropia. Ma Lermontov si limitava a scrivere le sue verità senza timore della censura. Limitandosi a descrivere la realtà come nessuno altro osava fare - E la verità, agli occhi di una società votata alla pochezza d’animo, alla menzogna e all’aridità morale; perennemente vestita a festa per ingannare il vuoto dell’esistenza e costantemente china, nell’eterna deferenza e prostrazione al potere; è sempre stata “indescrivibile”, senza una costante, necessaria, adeguata dose di ipocrisia. Lo stesso avrebbero detto a Tom Wolfe un secolo dopo. Quando descrisse l’aristocrazia newyorkese dei “radical chic”.

Quando lo zar provocò la morte di Puśkin, intellettuale di riferimento dei rivoluzionari decabristi, il giovane Michail non seppe resistere dal firmare una lirica di denuncia per gridare ancora una volta la sua verità: si era trattato di un “assassinio di stato” ordinato da Nicola e pianificato dagli zaristi. Ciò gli sarebbero costato un nuovo esilio nelle lande desolate battute dai tartari. Là dove non poteva fare altro danno. Dove i raffinati cappotti di pelliccia, gli alamari e i ricami d’oro di giubbe come la sua non avevano mai catturato i raggi di un sole ghiacciato. Ma forse avrebbero catturato l’attenzione di qualche franco tiratore.

Nel suo racconto Il fatalista, Lermontov rivela come sia sempre stato profondamente convinto che l’uomo non disponga liberamente della propria vita, ma anzi di come sia la vita invece inscindibilmente legata al potere della sorte. Una sorte beffarda, che si impone sull’intera esistenza che descriveva come un “melodramma ridicolo”. Non dovrebbe stupirci in tal senso la sorte che lo lega per sempre a quella del protagonista del suo romanzo.

Mentre Lermontov è di ritorno dal lungo esilio, annoiato e insofferente, cercherò ancora una volta la morte sfidando in duello un suo vecchio conoscente: un compagno d’armi con cui aveva condiviso l’amore per una donna, Nikolaj Martynov, incontrato durante una sosta curativa in una località termale à la page per i giovani russi.

Stavolta la morte non sbaglia, lo trova. Per onore o per gioco, per il brivido di saggiare ancora una volta che sapore aveva rischiare la vita davanti la canna di una pistola in duello. Lermontov scrive il suo destino nella vita vera. Sarà lui a cadere esanime quel giorno. Non l’avversario, né il suo alter ego Pečorin. Trafitto al cuore dal piombo rovente che tanto aveva desiderato. Sotto un bosco di betulle dissetate dalla pioggia che cadeva copiosamente.

Si trattò di fatalismo o destino? “Cos’è il poeta senza sofferenza, cos’è l’oceano senza tempesta?” Si era domandato spesso nelle notti più scure e insonni trascorse nella valli del Caucaso minacciate dai ribelli. Prima dell’alba, quando sorgeva la battaglia, lui leggeva insonne il bardo scozzese Walter Scott, il desiderio perenne sembrava essere sempre stato il non tornate indietro. Poter giacere dopo la battaglia, col piombo nel petto: “Una profonda ferita ancora fumante (…) Il sole che ardeva e mi bruciava” - ma dormiva sognando - “Sognai un pranzo a sera nella nostra patria (…) sedeva lì pensosa una ragazza, immersa aveva l’anima in un sogno, Dio sa perché quel sogno era triste. Sognò di una valle nel Daghestan con un corpo noto che vi giaceva, fumava nel suo petto una ferita, scorreva il sangue, zampillava il freddo”. Questo sognava il poeta russo.

Da qui il quesito dunque: “È forse peculiarità dei giovani poeti cercare la fine prima ancora dell’inizio? O forse è il loro destino?”. I loro lettori, i critici, gli storici, i loro famelici ammiratori s’accorgono spesso di loro solo un momento prima dell’epilogo. Le muse s’innamorano dell’artista quando è troppo tardi. Alla fine. Mentre la loro intera epoca li rifiuta e la storia si ripete.

Cyrano, Edmond Dantes, Alonso Chisciano della Mancha; sono tutti volti della stessa vicenda. Mentori che hanno ispirato migliaia di uomini dal destino misconosciuto. Uomini che nel loro insegnamento però hanno condotto vite reali. Nasciamo per essere chi siamo, o forse è la nostra vita a finire per adeguarsi a quella di chi che vorremmo essere? Viene da domandarsi di nuovo.

Indro Montanelli, idolo della maggior parte dei giornalisti di oggi e di ieri, una volta confessò di aver scritto uno dei suoi primi articoli incensando del suo colui che non ne aveva affatto bisogno: era proprio Byron. La grande fonti d’ispirazione di Lermontov. Il fondatore di questo giornale, la cui gioventù era stata scandita da lettere di rifiuto e di sconforto, si domandò a lungo nella maturità della professione, se quell’articolo fosse servito più a lui per convincersi di essere un giornalista che ai lettori che erano destinati a conoscerlo poco a poco, prima di restare ammaliati dai suoi reportage, dai suoi libri e dal suo talento di saper raccontare il mondo.

Così la coincidenza sembra lasciare smarriti nel dubbio: quelle dozzine di laceranti fallimenti che fendono come sciabole affilate l’anima di ogni ambizioso, sono causa o effetto? E gli eroi dei nostri tempi, lo sono per destino o per emulazione? Ai posteri ancora una volta l’ardua sentenza. Frattanto, il granduca Michele dopo aver letto il Demone di Lermontov, affermò da contemporaneo: ”Non riesco a decidere chi ha creato chi, se Lermontov lo spirito malvagio, o lo spirito malvagio Lermontov”.

Anche allora, il dubbio, era lecito.

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