Tropea (Vibo Valentia) - «È pericoloso giudicare in piazza gli uomini, che siano politici o no, riguardo a quella che è la loro moralità: se si intraprende questa strada si può anche arrivare al “Terrore” di Robespierre», avverte il portavoce dell’Opus Dei. Pippo Corigliano è venuto in Calabria per presentare il suo libro La mia vita nell’Opus Dei (Mondadori), partecipando a una delle tre serate della terza edizione del «Premio letterario Tropea», ideato e condotto da Pasqualino Pandullo e organizzato da Maria Faragò. Dopo Roberto Saviano con Gomorra e Gianrico Carofiglio con Ragionevoli dubbi, stavolta il vincitore è stato lo scrittore calabrese Carmine Abate. Il suo bellissimo Gli anni veloci (Mondadori) ha surclassato con 263 voti della giuria popolare (formata dai 409 sindaci calabresi, dai membri dell’Accademia degli Affaticati e da un gruppo di studenti e cittadini tropeani) gli altri due finalisti, scelti dalla giuria tecnica guidata da Isabella Bossi Fedrigotti: Paolo Di Stefano con Nel cuore che ti cerca (Mondadori), che ne ha avuti 53 e Mario Desiati con Il paese delle spose infelici (Rizzoli), con 32.
Ma allora, Corigliano, l’intervento del segretario della Cei Crociata, che ha condannato il libertinaggio come «un atto grave, non un affare privato» ed è stato interpretato quasi come una scomunica nei confronti di Berlusconi?
«È chiaro che la Cei fa bene a condannare il libertinaggio in quanto tale, ma non si sa dove si può andare a finire quando prende il sopravvento lo spirito del giustizialismo e si condannano i singoli pubblicamente per i loro comportamenti morali».
Addirittura, lei evoca gli anni del «Terrore» della Rivoluzione francese?
«Bisogna fare attenzione. Abbiamo visto in passato che la ricerca della purezza può portare a uccidere tutti i presunti cattivi, finché ci si accorge che non restano più neppure i buoni. E questo, in un modo o nell’altro, si può ripetere».
Vuol dire che la distinzione tra fatti pubblici e privati rimane tale anche per un politico?
«Credo che le condanne pubbliche sulla moralità vadano evitate. È meglio che ognuno, personalmente, se la veda con Dio riguardo alla sua vita personale».
Poco prima dell’intervento della Cei, sul palco del «Premio Tropea» lei è stato coinvolto proprio in una discussione su questo tema. La provocazione è venuta da un intellettuale di sinistra, Felice Cimatti, che le ha chiesto come mai tanti credenti non si indignino di fronte a chi dice di difendere la famiglia cristiana e poi si comporta in modo diverso. Lei non ha evitato la domanda, che indirettamente si riferiva a Berlusconi.
«No, ho detto chiaramente: io non mi indigno. Anche se capisco, certo, chi prova indignazione e ne comprendo le motivazioni, perché ogni cristiano deve essere sempre pronto a migliorarsi. Se si comincia a indignarsi, però, prima di tutto ci si deve indignare con se stessi».
Parlando del suo libro lei aveva spiegato che l’insegnamento dell’Opera è di essere buoni cristiani nella vita quotidiana. Rivendicando, quindi, una coerenza tra fede proclamata e comportamenti personali.
«Questo è certamente il messaggio del nostro fondatore, Escrivá de Balaguer. Un messaggio che io mi trovo a spiegare sempre, anche difendendo l’Opus Dei da tanti sospetti che anche recentemente si sono manifestati. E con la mia risposta a Cimatti volevo dire che proprio perché sono credente la penso così: Dio è venuto per salvare, non per giudicare. Si è fatto uomo per condividere le miserie dell’uomo».
E non per distinguere tra buoni e cattivi, salvando i primi e dannando gli altri?
«Come nel dibattito al Premio, ricordo un episodio del Vangelo. A chi si meravigliava di vederlo mangiare con pubblici peccatori, Gesù ha risposto: “Il medico è necessario ai malati, non ai sani”».
Insomma, non
«Ecco, io ho sempre sperato non in ciò che posso fare io, ma in ciò che può fare Dio per gli altri».
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