Quando uno scrittore è «prigioniero della propria educazione umanistica», è capace di un'operazione spericolata come ripubblicare, revisionato, il proprio esordio di un quarto di secolo fa e riuscire a farlo sembrare nuovo di zecca. È quanto accade in questi giorni a Michele Mari e al suo romanzo Di bestia in bestia, (Einaudi, pagg. 224, euro 19,50), la storia del castello di Osmoc, della sua biblioteca à la Borges, dell'incombente servitore Epeo e dei mostri che mugghiano nella torre. Ma è soprattutto il linguaggio impastato di favole, mito e classicismi, linguaggio «elaborato, dotto ed estroso», lo definì a suo tempo Giorgio Manganelli, che stupisce e risana. Linguaggio che diede problemi: Mario Spagnol di Longanesi, che per prima lo pubblicò, tentò più volte un «energico editing». Mari minacciò piuttosto di non pubblicare affatto. Quanti oggi farebbero lo stesso?
In Italia si pubblicano quasi 70mila nuovi titoli l'anno. C'era proprio bisogno di una riedizione revisionata?
«Era l'unico tra i miei libri che sapevo di non voler ristampare meccanicamente ed era esaurito e introvabile».
Ma non lo ha riscritto.
«Ho lavorato come un editor, sottoponendo il testo originale a una serie continua e capillare di tagli; rimosso incongruenze nella trama; reso più incisivi i dialoghi; espunto composizioni a epigrafe e la maggior parte degli inserti poetici e tutti i riferimenti a fatti della mia vita destinati a rimanere ermetici per la quasi totalità dei miei lettori».
Il fuoco del romanzo è la cultura umanistica. Un concetto demodé.
«Per me è una parte costitutiva talmente pervasiva che diventa seconda natura. Fortifica ma rende schiavi di una serie di automatismi mentali, formali, espressivi. Nel caso del protagonista significa essere plagiato e abusato dalla sua enorme biblioteca. È un concetto anacronistico perché la cultura umanistica è sempre più contaminata, meno autoreferenziale. Ma l'idea donchisciottesca di poter essere determinati appieno da una grande tradizione muore già nel Novecento, con Auto da fé di Canetti, che non a caso è la storia di un uomo che vive come un sovrano nella sua biblioteca, ma quando va nel mondo il suo sapere non è spendibile».
Figuriamoci ora, che le biblioteche sono virtuali.
«In Università (insegna Letteratura italiana alla Statale di Milano, ndr) sono stato l'ultimo professore a cedere al computer. Fino al 2000 ho scritto con una certa stilografica a pennino sottile. Poi battevo a macchina tutto, postillavo il dattiloscritto e quando era troppo tormentato lo ribattevo. Mi hanno costretto a cambiare, ma l'ho vissuta come una violenza. Ho bisogno della reificazione dell'oggetto artistico: se uno viene a casa mia vede libri e cd e capisce subito le mie idee politiche, i gusti musicali».
Anche il concetto di eccellenza in letteratura diventa obsoleto nella virtualità?
«Su internet chiunque può sentenziare. Un tempo era privilegio di Bo o Pampaloni. Come in ogni processo di democratizzazione ci sono benefici sul piano della partecipazione, ma perdita di sacralità».
Siti neodirettore di Granta l'ha chiamata a collaborare al grido di «Ospiterò la gente che sa scrivere».
«Anche se non fossi stato invitato, mi verrebbe da dire Finalmente!. Quando ho esordito, scrivere bene era una colpa. Chi mi recensiva era perplesso: Mari sa scrivere più che bene, ma abbiamo ancora bisogno di libri scritti bene?. Impazzivo di furore: Mentecatto, volevo rispondere. Il prius di ogni operazione artistica è il bello».
Oggi va meglio?
«Il gusto medio è sempre più ottuso e depresso. Dimostrato dai vasi comunicanti per cui cabarettisti e giornalisti vanno in classifica di narrativa. Se fossi un editore, fallirei subito: venisse da me un comico televisivo a propormi un libro, gli direi di tornare a fare il suo mestiere».
Tutta colpa degli editori?
«Sono spesso più realisti del re. Ma è colpa anche di quel fenomeno aberrante che sono le scuole di scrittura. Vanno bene per scaltrirsi nel creare un volantino pubblicitario. Ma quando ci sono andato, come animale esotico in mostra, mi sono sentito fare domande che presumevano ambizioni statutarie: lo studente che va lì è convinto di uscire scrittore. Ma Dostoevskij ha dovuto fare la vita di Dostoevskij per scrivere come Dostoevskij. Ne sono uscito disgustato».
C'è un premio letterario che ambirebbe vincere?
«Non saprei. Mi fece piacere quando vinsi il Bagutta perché in giuria c'erano Pontiggia, Tadini, Piero Gelli».
Ma lei non è uno degli Amici della Domenica?
«Ahimé, sì. Mi espone a una serie di richieste... Ricordo che quando ero alla Bompiani nel 1992, volevano che partecipassi allo Strega. Quando mi spiegarono che dovevo allestire una campagna elettorale, mi rifiutai e li diffidai dal presentarmi».
Oggi lo rifarebbe, con Einaudi?
«A parte che questo non mi sembra un romanzo adatto a fare a gomitate con altri libri, partecipare mi metterebbe in imbarazzo: lo Strega mi pare un premio in cui, a parte qualche beneficio di vendite, ci sia più da perdere che da guadagnare. Se lo vinci, è merito dell'editore. Se per assurdo partecipassi e vincessi, il premio sarebbe vinto dal gruppo Mondadori-Einaudi, non da me. La motivazione mercantile avrebbe il prezzo di un certo sputtanamento».
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